SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE IV PENALE
Sentenza 4 marzo - 24 aprile 2009, n. 17610
(Presidente Mocali - Relatore Licari)
Osserva
In data omissis, U. L., dopo che il vicino di casa D. L. G., un uomo di omissis anni portatore di cardiovasculopatia sclerotica, aveva disturbato con il suo parlare ad alta voce il riposo della moglie, lanciava al suo indirizzo, dalla finestra al secondo piano del palazzo di fronte ove abitava, una busta di plastica colma d'acqua, la quale, per l'inatteso e intenso rumore che ne derivava, provocava uno spavento talmente intenso sull'anziano che ne cagionava la morte due ore dopo, per effetto di improvvisa aritmia cardiaca e conseguente acuta insufficienza cardiorespiratoria.
Il Tribunale di Latina, con sentenza del 6/3/2003, condannava l'U. alla pena ritenuta di giustizia ed al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili, dichiarandolo responsabile del reato di omicidio colposo ascrittogli, avendo ritenuto provato, sulla scorta degli elementi di fatto sopra descritti, che il lancio della busta, effettuato dall'imputato imprudentemente all'indirizzo dell'anziano cardiopatico, avesse provocato, con rapporto diretto di causa ad effetto, il decesso di quest'ultimo, per l'acuta insufficienza cardio-respiratoria insorta a seguito di improvvisa aritmia cardiaca.
Decidendo sull'appello proposto dall'imputato, la Corte di Appello di Roma, con sentenza dell'1/10/2004, riformava parzialmente la decisione di primo grado, nel senso che, pur ritenendo sussistente il rapporto di causalità tra la condotta dell'U. e l'evento letale che ne è conseguito, reputava che il fatto contestato, piuttosto che inquadrarsi nell'ambito dell'omicidio colposo, dovesse più correttamente qualificarsi alla stregua del delitto previsto dall'art. 586 c.p., cioè come morte, verificatasi quale conseguenza non voluta del delitto di minaccia, quest'ultimo dolosamente compiuto dall'imputato ed implicito nel lancio della busta piena d'acqua, che avrebbe spaventato la persona offesa e lasciato alla stessa prevedere ulteriori e più incisive azioni violente da parte dell'U.; per l'effetto, concesse le attenuanti generiche con giudizio di equivalenza rispetto all'aggravante contestata, riduceva la pena ad anno uno di reclusione, confermando nel resto l'appellata sentenza.
Contro quest'ultima decisione propongono ricorso per cassazione il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Roma e l'imputato, per mezzo del suo difensore.
Il P.G., deduce vizio di legge e difetto di motivazione, sostenendo che i giudici di secondo grado hanno trascurato di considerare che la busta colma di acqua, lanciata dall'U., ha colpito in pieno petto la vittima, sicché la morte sarebbe conseguita non già come conseguenza non voluta di una pretesa minaccia, ma da una azione diretta a percuotere l'antagonista; ne deriva, secondo il P.G. ricorrente, che il fatto andrebbe sussunto nella previsione dell'omicidio preterintenzionale ex art. 584 c.p. e che la sentenza impugnata andrebbe annullata con rinvio, per nuovo esame, alla stessa Corte di Appello diversamente composta. Nell'interesse dell'imputato sono dedotti i seguenti motivi:
- Violazione di legge, per avere la Corte territoriale scelto di dare al fatto una definizione giuridica diversa rispetto all'originaria contestazione di omicidio colposo, in tal modo oltrepassando i limiti della cognizione del giudice di appello, al quale è stato devoluto, con i motivi di appello proposti dall'imputato, solo l'esame dei punti della decisione attinenti all'accertamento del fatto, alla attribuibilità al predetto, all'individuazione del nesso causale ed al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche. La qualificazione giuridica del fatto contestato, rivisitata dal giudice di appello, quindi, configurerebbe, secondo la difesa, un punto della decisione coperto, in difetto di appello da parte del P.M., dalla preclusione processuale, conseguendone la violazione del disposto di cui al comma 3 dell'art. 597 c.p.p..
- Violazione di legge e difetto di motivazione, per la ragione che i giudici di secondo grado, nell'impossibilità di qualificare il fatto nell'alveo dell'omicidio preterintenzionale, essendo tale opzione ostacolata dall'incompetenza del giudice di primo grado a conoscere di siffatto delitto, hanno adottato la soluzione, residuale, di riqualificarlo come minaccia ex art. 612 c.p., individuando nel lancio della busta piena d'acqua una sorta di avvertimento implicito di azioni più incisive ai danni della vittima; ma così operando, avrebbero gli stessi giudici omesso di considerare che la minaccia, lungi dal risolversi in mero atto di ostilità, è configurabile nel caso in cui vi sia la prospettazione di un male futuro ingiusto, idonea ad incidere sulla libertà psichica del soggetto passivo, presupposti questi ultimi, che, nella specie, non sarebbero stati in motivazione rappresentati se non in termini evasivi ed apodittici e, quindi, non esaminati in modo tale da potere stimare l'attitudine del gesto, tenuto conto della contingente situazione, ad intimorire.
- Vizio di legge e difetto di motivazione in relazione al nesso di causalità tra gesto dell'imputato e morte della vittima, avendo rappresentato quella sul tema proposta in motivazione dalla Corte territoriale una risposta del tutto elusiva rispetto ai rilievi critici sollevati in sede di appello dalla difesa e, comunque, a cagione delle insufficienti considerazioni di carattere congetturale alle quali è ancorata quella risposta, contrastante con il rigore dell'accertamento giudiziale del nesso di condizionamento, che è, invece, richiesto, dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con i principi enunciati nella sentenza “Franzese” n. 3328/2002.
Il ricorso del P.G. è destituito di fondamento.
All'uopo va considerato che a frapporsi al risultato che intende raggiungere il P.G. con il suo ricorso, quello cioè di vedere accolta la sua tesi della qualificazione giuridica del fatto come omicidio preterintenzionale, è un ostacolo insormontabile, costituito dal fatto che le emergenze probatorie, per come sono state descritte nelle sentenze di primo e secondo grado, non evidenziano nel gesto compiuto dall'imputato una chiara volontà diretta univocamente a ledere od a manomettere l'integrità fisica dell'avversario, ma soltanto quella, in tal senso correttamente stimata dalla Corte territoriale, di intimorirlo, al fine di indurlo a cessare dal cianciare in modo, soggettivamente avvertito, molesto.
Tanto è sufficiente per giustificare il rigetto del ricorso del P.G..
Quanto al ricorso dell'imputato, il primo motivo si palesa infondato, per la ragione che, quando la Corte di Appello di Roma ha attribuito al fatto, come è avvenuto nella specie, una qualificazione giuridica diversa (da omicidio colposo a delitto ex art. 586 c.p.), non esorbitante però dalla competenza per materia del Tribunale, bene ha fatto a trattenere il procedimento e a decidere su di esso, non infliggendo all'imputato-appellante un trattamento sanzionatorio più severo, anzi riducendogli in concreto la pena inflittagli dal Tribunale.
Il ricorso, tuttavia, è meritevole di accoglimento per le stesse ragioni, sulle quali la difesa ha svolto condivisibili argomentazioni nell'ambito del secondo e del terzo motivo.
Tali ragioni concernono l'insopprimibile esigenza, non pienamente rispettata nella sentenza impugnata, che, in tema di responsabilità penale per morte o lesioni costituenti conseguenza non voluta di altro delitto doloso (art. 586 cod. pen.), la responsabilità sia affermata non solo sulla base del mero rapporto di causalità materiale che, comunque, sia rigorosamente ancorato al principio dell'alta credibilità razionale del correlato accertamento giudiziale, ma anche e, soprattutto, allorquando si accerti la sussistenza di un coefficiente di “prevedibilità” della morte o delle lesioni, sì da potersene dedurre una forma di “responsabilità per colpa”.
In altri termini, per la soluzione del tema dedotto, soprattutto, con il secondo motivo, occorre individuare quale sia la precisa struttura della figura di reato di cui all'art. 586 c.p. e quali ne siano gli elementi costitutivi, osservando, anzitutto, che tale norma incriminatrice è stata perspicuamente qualificata come disposizione di chiusura e di rafforzamento del sistema di tutela dei beni della vita e dell'incolumità fisica, con carattere di specialità rispetto alla previsione dell'art. 83, comma 2, c.p., espressamente richiamato dall'art. 586.
Invero, col punire il fatto preveduto come delitto doloso da cui sia derivata, quale conseguenza non voluta, la morte o la lesione di una persona, il legislatore ha configurato una particolare specie di “aberratio delicti” con pluralità di eventi (oggetto, appunto, della disposizione contenuta del capoverso dell'art. 83), che strutturalmente è connotata da un delitto-base doloso, al quale è eziologicamente legato un evento ulteriore e diverso da quello voluto.
In dottrina e in giurisprudenza esiste disparità di opinioni rispetto alla determinazione del criterio di imputazione dell'evento morte e dell'evento lesione, nel senso che, mentre un primo indirizzo costruisce il rapporto tra delitto doloso di base ed evento non voluto in termini di pura e semplice causalità materiale (Cass., Sez. II, 15 febbraio 1996, Caso, rv. 205374; Cass., Sez. I, 14 febbraio 1990, Bevilacqua, rv. 184508), altre posizioni collegano la punibilità per il delitto ex art. 586 c.p. alla prevedibilità della morte o delle lesioni derivate dal delitto doloso, cui inerisce il rischio di lesione di tali beni, e, su tale base, delineano una forma di responsabilità per colpa (Cass., Sez. I, 22 ottobre 1998, D'Agata, rv. 211611; Cass., Sez. I, 29 gennaio 1997, Sambataro, rv. 207274).
Il Collegio ritiene di dovere aderire a quest'ultima linea interpretativa, favorevole alla sussistenza di un coefficiente di riferibilità psicologica, a titolo di colpa, dell'evento non investito dal dolo del reato di base, in quanto essa risulta sorretta da precisi ed univoci elementi di ordine logico e sistematico, individuabili principalmente nell'indefettibilità del principio di colpevolezza, in necessaria sintonia con la tendenza dell'ordinamento verso il superamento delle forme di responsabilità oggettiva, fondata sulla regola del “versari in re illicita”, e verso l'eliminazione di qualsiasi deroga al principio “non c'è pena senza colpa”, la cui matrice è identificabile nel precetto sancito dall'art. 27, comma 1, della Carta fondamentale (Corte cost., sent. n. 364 del 1988 e n. 1085 del 1988).
Rispetto alle linee-guida che sorreggono l'orientamento giurisprudenziale qui condiviso, la sentenza impugnata, tuttavia, è silente, non avendo i giudici di appello offerto, in motivazione, alcun argomento a sostegno della prevedibilità, da parte dell'imputato, che dal gesto volontariamente compiuto, a contenuto solo per implicito intimidatorio, potesse derivare il rischio della perdita della vita del soggetto passivo e, su tale base, fosse delineabile, nei confronti dell'autore del gesto, un coefficiente di riferibilità psicologica, a titolo di colpa, dell'evento, non investito dal dolo del reato-base.
Ciò senza dire, che non rispondono a pieno ai criteri rigorosi di accertamento giudiziale del nesso di condizionamento, tra gesto dell'imputato e morte della persona offesa che ne è seguita, quali sono affermati dalle Sezioni Unite con la richiamata sentenza “Franzese”, le considerazioni sul tema contenute nella sentenza impugnata, in quanto esse sono formulate in termini solo congetturali e, comunque, incerti, come è dato desumere dallo stesso tenore letterale delle parole usate a pag. 3: “...non può escludersi che lo spavento... ne abbia affrettato la morte”.
Ai vizi interpretativi ed alle lacune motivazionali come sopra rilevati dovranno porre rimedio, in sede di rinvio, i giudici della Corte di Appello di Roma, ai quali gli atti sono trasmessi per nuovo giudizio, previo annullamento della sentenza impugnata.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di Appello di Roma.
Rigetta il ricorso del P.G..
pubblicato in Archivio il 11.05.09