Il provvedimento di archiviazione determina nei confronti dello stesso ufficio del pubblico ministero una preclusione endoprocedimentale che inibisce, in assenza del decreto di riapertura delle indagini, non solo la ripresa dell’attività investigativa e le iniziative cautelari, ma lo stesso esercizio dell’azione penale, con riferimento allo stesso fatto oggetto del provvedimento di archiviazione. 


Fatto


1. Con la decisione in epigrafe, la Corte di appello di Roma confermava la sentenza in data 29 aprile 2003 del Tribunale di Roma, appellata da ***** e *****, condannati, con le attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, alla pena di anni tre di reclusione ed euro 250 di multa ciascuno, oltre al risarcimento dei danni, da liquidare in separata sede, in favore della parte civile *****, in quanto responsabili del reato di cui agli artt. 110, 629 primo e secondo comma, in relazione all'art. 628 ultimo comma, c.p., perché, in concorso tra loro, agendo in più persone riunite, costringevano lo *****, tenendolo chiuso dentro un locale per alcune ore e mediante minacce per la sua incolumità fisica, a cedere a ***** la propria quota della società "Pub" s.r.l. che gestiva un esercizio pubblico (in Roma, il 28 luglio 1989)•
2. La Corte di appello riteneva infondato il motivo proposto da entrambi gli imputati circa la nullità della sentenza impugnata per violazione dell'art. 414 c.p.p. per avere il p.m. esercitato l'azione penale relativamente a fatto per il quale era stata in precedenza disposta l'archiviazione (nella specie, decreto di non doversi promuovere l'azione penale emesso dal Giudice Istruttore a norma dell'art. 74 c.p.p. 1930), senza previa autorizzazione del G.i.p. alla riapertura delle indagini.
Osservava al riguardo, in adesione a un orientamento giurisprudenziale (citando Cass., sez. Ili, n. 43952 del 2004), che l'esercizio dell'azione penale da parte del p.m. per lo stesso fatto già oggetto di provvedimento di archiviazione, in mancanza di un decreto di autorizzazione del g.i.p. ex art. 414 c.p.p. non invalidava l'azione penale, comportando solo la sanzione di inutilizzabilità degli atti di indagine eventualmente compiuti, nella specie insussistenti, "essendosi il processo sviluppato interamente nella fase dibattimentale".
Dovevano poi rigettarsi gli ulteriori motivi dedotti dagli appellanti.
La responsabilità penale era stata correttamente affermata sulla base delle dichiarazioni della persona offesa *****, confermate da quelle, sia pure de relato, dei fratelli di questo, ***** e ***** nonché da quelle confessorie, rese al p.m., da *****, marito di ***** *****, successivamente deceduto, che aveva riferito circa la condotta minacciosa del ***** e del ***** nei confronti dello ***** al fine dell'acquisizione della gestione della s.r.l. "Pub".
La pena era stata determinata a livello del minimo edittale e le attenuanti generiche erano state correttamente valutate equivalenti alla contestata aggravante.

3. Hanno proposto ricorso per cassazione entrambi gli imputati a mezzo dei rispettivi difensori.

4. L'aw. ******, difensore del *****, denuncia, con un unico motivo, la nullità della sentenza di appello per violazione degli artt. 161, 171, 185 c.p.p., dato che all'imputato, invitato nel corso delle indagini "a eleggere domicilio", non venne dato, come desumibile dal relativo verbale, il prescritto avvertimento che, in caso di mutazione del domicilio, sarebbe stato suo onere darne comunicazione all'autorità procedente e che in mancanza le notificazioni sarebbero state eseguite mediante consegna al difensore a norma dell'art. 161 comma 1 c.p.p. Trattandosi di nullità assoluta ed essendo l'imputato rimasto contumace, da essa derivava la nullità degli atti consecutivi; e il giudice di appello avrebbe dovuto dichiararla, rimettendo gli atti al giudice che procedeva al momento in cui la nullità si era verificata.

5. L'avv. *****, difensore del *****, denuncia, con un primo motivo, la nullità della sentenza in relazione agli artt. 414 e 178 comma 1, lett. b), c.p.p., osservando che la Corte di appello, nell'assumere che la mancanza del decreto di autorizzazione alla riapertura delle indagini non invalidava l'atto di esercizio dell'azione penale, aveva ignorato la giurisprudenza delle Sezioni unite, che in due pronunce (sent. Finocchiaro e sent. Romeo), in adesione alla sentenza della Corte cost. n. 27 del 1995, avevano affermato che in mancanza del decreto ex art. 414 c.p.p. è inibito al p.m. sia lo svolgimento dell'attività investigativa sia l'esercizio dell'azione penale per lo stesso fatto oggetto del provvedimento di archiviazione.
Nel caso di specie, altro magistrato del medesimo Ufficio del P.m., sulla base di una irrituale sollecitazione della persona offesa e di una mera "rilettura" delle emergenze investigative, aveva esercitato l'azione penale in mancanza di un provvedimento di autorizzazione del G.i.p.
Con un secondo motivo, denuncia la violazione di legge e il vizio di motivazione in punto di affermazione della responsabilità penale, rilevando, in primo luogo, che la Corte di appello, nel valutare attendibili le dichiarazioni della persona offesa, non aveva tenuto conto dei puntuali rilievi mossi dall'appellante alla sentenza di primo grado; la quale, del resto, aveva riconosciuto che la testimonianza dello ***** "non era coerente in tutti i passaggi", divergendo dalla originaria denuncia su due punti fondamentali della vicenda, l'uno afferente alla circostanza della contestata sottoscrizione da parte del ***** di una scrittura contenente una sorta di confessione stragiudiziale, l'altro relativo alla mancata menzione nella denuncia dello ***** dell'asserito "sequestro di persona" da parte del *****.
Tali circostanze inficiavano l'attendibilità della versione della persona offesa, aspetto che non poteva essere superato dalle interessate dichiarazioni dei suoi fratelli, de relato dalla stessa fonte.

6. I ricorsi venivano assegnati alla Seconda sezione penale, che, con ordinanza emessa all'esito della udienza del 26 febbraio 2010, e depositata il 19 marzo 2010, ne ha rimesso la trattazione alle Sezioni unite, a norma dell'art. 618 c.p.p., rilevando l'esistenza di un contrasto giurisprudenziale circa la questione, sollevata nel ricorso dell'imputato ***** e ritenuta estensibile ex art. 587 c.p.p. all'altro imputato ricorrente, in quanto non esclusivamente personale, relativa alle conseguenze dell'omessa richiesta da parte del p.m. del decreto di riapertura delle indagini.
L'ordinanza evidenzia che, nel caso di specie, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma aveva chiesto e ottenuto l'archiviazione della notizia di reato contenuta nella denuncia della persona offesa per il delitto di estorsione aggravata nei confronti del ***** e del ***** e che, successivamente, il medesimo P.m., previa nuova iscrizione della stessa notizia di reato - identica nei profili soggettivi e oggettivi - e rinnovata valutazione degli stessi fatti, aveva richiesto il rinvio a giudizio, senza prima sollecitare la riapertura delle indagini e senza svolgerne di nuove.
Si osserva al riguardo che la giurisprudenza di legittimità ha espresso sul punto due diversi orientamenti, l'uno per il quale la mancanza del decreto di riapertura determina soltanto 1'inutilizzabilità degli atti di indagine successivi all'emissione del provvedimento di archiviazione, l'altro secondo cui, sulla falsariga della pronuncia interpretativa di rigetto della Corte costituzionale (sentenza n. 27 del 1995), il decreto di riapertura delle indagini integra una condizione di procedibilità, il cui difetto impedisce l'esercizio stesso dell'azione penale.
Si osserva ancora che le Sezioni unite, con la sentenza n. 9 del 2000, Finocchiaro, pur componendo un contrasto che si era determinato lungo le direttrici appena sopra indicate, non avevano chiarito se l'effetto preclusivo si verifichi anche quando l'azione penale, non rimosso il decreto di archiviazione, sia esercitata senza essere preceduta da nuove indagini; e che, secondo altro orientamento, l'efficacia preclusiva ha per oggetto la notizia di reato e non il fatto e impedisce la "prosecuzione della fase procedimentale" ma non la "definizione giuridica dell'imputazione", in sostanza limitando gli effetti della mancata riapertura delle indagini alla sola inutilizzabilità degli esiti delle indagini svolte dopo l'archiviazione, con esclusione della più radicale conseguenza dell'improcedibilità dell'azione.

7. Il Presidente Aggiunto, con decreto del 30 marzo 2010, assegnava il ricorso alle Sezioni unite penali, fissando per la sua trattazione l'odierna udienza pubblica.

Diritto

1. La questione di diritto rimessa alle Sezioni Unite è la
seguente :
"Se la mancata emissione del decreto di riapertura delle indagini ex art. 414 c.p.p. comporti, con riferimento allo stesso Ufficio del pubblico ministero che aveva richiesto e ottenuto il provvedimento di archiviazione, la preclusione all'esercizio dell'azione penale o soltanto la inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti successivamente alla archiviazione del procedimento".
2. Ai fini della risoluzione dei ricorsi detta questione ha natura pregiudiziale, e, sebbene investita dal solo ricorso del *****, essa è estensibile al *****, a norma dell'art. 587 comma 1 c.p.p., come rilevato nella ordinanza di rimessione.
3. Sul tema sono in effetti da registrare orientamenti non univoci nell'ambito della giurisprudenza di legittimità successiva alla sentenza delle Sezioni unite in data 22 marzo 2000, ric. Finocchiaro, che, come oltre meglio si preciserà, si era pronunciata in senso adesivo alla impostazione concettuale della sentenza della Corte cost. n. 27 del 1995.
3.1. Da un lato, Sez. VI, il maggio 2004, n. 30160, Manchisi, ha affermato che, in difetto di autorizzazione giudiziale alla riapertura delle indagini, l'esercizio dell'azione deve ritenersi inficiato da nullità assoluta ai sensi dell'art. 179 c.p.p., con la conseguenza dell'impossibilità per il pubblico ministero, dopo la pronuncia di archiviazione, di svolgere indagini e successivamente esercitare l'azione, o anche solo di esercitare quest'ultima senza il previo compimento di atti di indagine.
In senso analogo si sono espresse, da ultimo, Sez. I, 4 marzo 2010, n. 16306, Greco, secondo cui la carenza del provvedimento di riapertura delle indagini determina, ai sensi dell'art. 179 c.p.p., la nullità assoluta dell'atto di esercizio dell'azione penale, con la conseguenza che al pubblico ministero è precluso svolgere indagini e successivamente esercitare l'azione ed anche l'esercizio "immediato" dell'azione; nonché Sez. I, 10 febbraio 2010, Buffardeci, che ha avuto cura di precisare come l'effetto preclusivo non impedisca che gli atti di indagine espletati prima dell'archiviazione siano utilizzabili nei confronti di un diverso soggetto, anche ai fini dell'esercizio dell'azione penale, pur in mancanza di un provvedimento ex art. 414 c.p.p.
In una particolare fattispecie, Sez. IV, 13 aprile 2006, n. 13178, Cala, ha affermato l'abnormità del provvedimento con cui il giudice per le indagini preliminari, investito di una nuova richiesta di archiviazione per uno stesso fatto e nei confronti del medesimo soggetto per i quali v'era già stata pronuncia di archiviazione, invece di dichiarare 1'improcedibilità della richiesta aveva disposto la formulazione dell'imputazione.
Sez. I, 20 gennaio 2005, n. 4536, Guadalupi, ha puntualizzato che l'effetto preclusivo attiene allo "stesso fatto", dovendo intendersi per tale quello connotato anche dall'identità dell'autorità procedente.
Sulla stessa linea, Sez. V, 24 febbraio 2004, n. 16851, Ferlito, ha ribadito che al provvedimento di archiviazione non rimosso seguono 1'improcedibilità dell'azione e 1'inutilizzabilità degli atti eventualmente compiuti, pur enunciando il principio secondo cui non v'è impedimento a che gli atti indebitamente compiuti nel procedimento penale siano valutati ad altri fini, come, nella specie, nell'ambito di un procedimento di prevenzione.
Nell'ambito dello stesso orientamento interpretativo, Sez. Ili, 24 novembre 2000, n. 3739, Puppo, è giunta a negare legittimità alla contestazione suppletiva in dibattimento di un reato per il quale in fase di indagine nei confronti dello stesso soggetto era stato emesso decreto di archiviazione, successivamente non rimosso, con l'affermazione secondo cui una simile contestazione non può che condurre ad una sentenza di improcedibilità per carenza di una condizione specifica dell'azione.
3.2. In senso invece difforme dall'orientamento ricavabile dalla sentenza Finocchiaro si è pronunciata Sez. Ili, 28 settembre 2004, n. 43952, Rodriguez, secondo cui la riapertura delle indagini senza preventiva autorizzazione ex art. 414 c.p.p. non comporta l'inammissibilità della richiesta di rinvio a giudizio ma soltanto 1'inutilizzabilità degli atti di indagine eventualmente compiuti successivamente al provvedimento di archiviazione.
Anche Sez. I, 15 giugno 2006, n. 28377, Palumbo, mostra di privilegiare la tesi per la quale gli effetti della violazione dell'obbligo di riapertura delle indagini sono limitati alla inutilizzabilità degli atti eventualmente compiuti, con esclusione della improcedibilità della richiesta di rinvio a giudizio.
Va ancora considerata la puntualizzazione offerta da Sez. V, 10 luglio 2007, n. 33057, Gianoglio, che, in fattispecie processuale affatto particolare, ha osservato che l'efficacia preclusiva derivante dalla mancanza di un decreto di riapertura delle indagini dopo il provvedimento di archiviazione si differenzia da quella ricollegabile alla sentenza di non luogo a procedere non revocata e della sentenza irrevocabile che faccia cosa giudicata, atteso che il provvedimento di archiviazione ha per oggetto la "notizia di reato" e non il "fatto", ed impedisce, quindi, la prosecuzione della fase procedimentale, non il giudizio sulla imputazione.

4. Giova innanzi tutto richiamarsi alla più volte menzionata sentenza della Corte costituzionale n. 27 del 1995, che, a giudizio di queste Sezioni unite, ha delineato in termini giuridicamente corretti la natura e la funzione del provvedimento di riapertura delle indagini ex art. 414 c.p.p. e le conseguenze della sua mancanza sulle iniziative eventualmente assunte dal medesimo ufficio del pubblico ministero sullo stesso fatto oggetto del provvedimento di archiviazione.
Con questa sentenza, in una fattispecie del tutto simile alla presente, è stato affermato a chiare lettere che il provvedimento di archiviazione determina una preclusione processuale e che l'autorizzazione a riaprire le indagini funge da condizione di procedibilità, in mancanza della quale il giudice deve dichiarare che "l'azione penale non doveva essere iniziata".
La prevalente giurisprudenza di legittimità vi si è adeguata e, soprattutto, lo ha fatto Sez. un. Finocchiaro del 22 marzo 2000, che, pur occupandosi specificamente della questione della validità di una richiesta di misura cautelare proposta senza previo decreto di autorizzazione alla riapertura delle indagini (risolta in senso negativo), ha sposato in tutto i principi affermati dalla Corte costituzionale, dando atto, tra l'altro, di un contrasto giurisprudenziale all'epoca già formatosi in termini analoghi a quello ora all'attenzione delle Sezioni unite e prendendo partito per la tesi (v. in particolare il punto 10 di detta decisione) secondo cui l'archiviazione determina una preclusione endoprocedimentale all'agere del medesimo ufficio del p.m., che inibisce non solo la ripresa dell'attività investigativa o le iniziative cautelari ma lo stesso esercizio dell'azione penale, con riferimento allo stesso fatto oggetto del provvedimento di archiviazione, rimovibile solo attraverso il decreto ex art. 414 c.p.p.
Ma già appena un mese prima di questa decisione le Sezioni unite, con la sentenza 23 febbraio 2000, n. 8, Romeo, trattando ex professo della preclusione derivante da una sentenza di non luogo a procedere, avevano mostrato di recepire in toto l'impostazione data dalla Corte costituzionale agli effetti della preclusione processuale derivante dal provvedimento di archiviazione.
Inoltre alla medesima pronuncia costituzionale si è richiamata, pur senza specifici approfondimenti sul tema qui all'esame, anche Sez. un., 28 giugno 2005, Donati.
Va infine considerato che il riconoscimento della capacità a testimoniare dell'"archiviato" da parte di Sez. un., 17 dicembre 2009, De Simone, si basa proprio sulla considerazione dell'effetto preclusivo derivante dal provvedimento di archiviazione, superabile solo con il decreto di riapertura delle indagini.

5. Contrariamente a quanto rilevato nell'ordinanza di rimessione, non sembra poter contraddire tale impostazione l'osservazione (peraltro di natura sostanzialmente incidentale) contenuta nella citata sentenza della Sez. V, Gianoglio, secondo cui l'efficacia preclusiva derivante dall'omessa riapertura delle indagini, concernendo soltanto le modalità di esercizio dell'azione penale elencate nell'art. 405 c.p.p. e operando esclusivamente nell'ambito del medesimo ufficio giudiziario, riguarderebbe la "notizia di reato" e non il "fatto", impedendo così la ripresa della fase procedimentale ma non il giudizio sulla imputazione.

La notizia di reato non è altro che il veicolo con cui viene rappresentato un fatto penalmente rilevante, come si ricava dalla disciplina contenuta negli artt. 330 e seguenti c.p.p., e il provvedimento di archiviazione, riconoscendo la "infondatezza" della notizia di reato si riverbera inevitabilmente sul contenuto di questa.

6. Non emergono dunque nuovi argomenti che inducano a rivedere
criticamente le conclusioni espresse dalla prevalente
giurisprudenza di legittimità, e in particolare quelle delle
Sezioni unite di questa Corte, in consonanza con la citata sentenza
della Corte costituzionale.
Deve perciò ribadirsi che la mancanza del provvedimento di riapertura delle indagini ex art. 414 c.p.p. determina non solo la inutilizzabilità degli atti di indagine eventualmente compiuti dopo il provvedimento di archiviazione ma anche la preclusione all'esercizio dell'azione penale per quello stesso fatto-reato, oggettivamente e soggettivamente considerato, da parte del medesimo ufficio del pubblico ministero.
Come implicitamente riconosciuto da Corte cost., ord. n. 56 del 2003, ciò va detto anche qualora il nuovo atto di impulso processuale passi attraverso un vaglio preventivo del giudice, come nel caso della richiesta di rinvio a giudizio, che dà luogo all'udienza preliminare (art. 416 c.p.p.).
L'esercizio dell'azione penale è espressione di una scelta che il pubblico ministero, in relazione a una determinata notitia criminis, compie al termine delle indagini preliminari in alternativa alla richiesta di archiviazione (art. 405 comma 1 c.p.p.), sicché, archiviato il procedimento, il p.m. perde il potere di adottare ulteriori opzioni sul medesimo fatto, a meno che non chieda e ottenga il decreto di riapertura delle indagini, dal quale infatti consegue una nuova iscrizione nel registro delle notizie di reato (art. 414 comma 2 c.p.p.)

7. Tanto chiarito, va osservato che nel caso in esame un simile effetto preclusivo non si è verificato.
7.1. Nella specie l'archiviazione è stata disposta secondo il
regime del codice di rito penale del 1930.
Dagli atti risulta un decreto di "non doversi promuovere l'azione penale" emesso in data 21 ottobre 1989 dal Giudice istruttore del Tribunale di Roma ex art. 74 c.p.p. 193 0, in accoglimento di una richiesta del Pubblico ministero in data 28 settembre 1989, avente ad oggetto una denuncia di Ales***** del 31 luglio 1989.
Il procedimento era stato quindi riaperto dal P.m. a seguito di una denuncia in data 21 settembre 1992, presentata per lo stesso fatto da ***** nei confronti del ***** e del *****, alla quale erano allegati documenti a sostegno di quanto denunciato e in cui si precisava che il fatto era stato già archiviato.
In data 6 ottobre 1994 il P.m. ordinava una nuova iscrizione a carico di *****, ***** e *****.
Il decreto che dispone il giudizio è del 6 dicembre 1996.
Dalla sentenza del Tribunale si ricava che in primo grado la difesa, in sede di conclusioni, aveva eccepito, producendo i relativi atti, che per lo stesso fatto il G.i. aveva emesso decreto di non doversi promuovere l'azione penale e che, entrato in vigore il nuovo codice, per esercitare l'azione penale sullo stesso fatto il P.m. avrebbe dovuto chiedere al G.i.p. l'autorizzazione alla riapertura delle indagini, cosa che non era avvenuta.
Il Tribunale aveva osservato che la deduzione era stata fatta solo in sede di conclusioni e che dagli atti esibiti non era possibile verificare nel merito la fondatezza della tesi difensiva; la quale comunque, secondo parte della giurisprudenza, avrebbe implicato solo la inutilizzabilità degli eventuali atti di indagine, ma non delle "risultanze dibattimentali su cui si fonda invece la presente sentenza".
7.2. Per le ragioni già esposte, quanto osservato dal Tribunale non può essere condiviso, ma va ribadito, richiamando Cass., sez. V, 15 giugno 1999, n. 9047, Larini e altri, che nel caso in cui il p.m. intenda nuovamente procedere su fatti oggetto di archiviazione ai sensi dell'art 74 c.p.p. 1930, non è necessario un provvedimento di autorizzazione da parte del g.i.p. Era infatti incontestato nel regime previgente che il decreto di non doversi promuovere l'azione penale emesso dal giudice istruttore non avesse alcun effetto preclusivo, ben potendo il pubblico ministero liberamente riaprire le indagini ed esercitare l'azione penale senza necessità di un provvedimento autorizzatorio giudiziale (v. per tutte Cass., sez. I, 31 gennaio 1989, n. 6588, Masucci).
Si potrebbe obbiettare che l'effetto preclusivo è collegato dal vigente codice al tipo di provvedimento (archiviazione) e che perciò, una volta che l'archiviazione sia intervenuta, occorra l'autorizzazione a riaprire le indagini tanto se il relativo provvedimento sia stato adottato in applicazione delle norme dell'attuale codice quanto se sia stato adottato in applicazione di quelle del codice del 1930.
Ma, in primo luogo, va considerato che l'art. 414 c.p.p. si riferisce al "provvedimento di archiviazione emesso a norma degli articoli precedenti", e non, semplicemente, a un "provvedimento di archiviazione"; sicché, anche solo sotto l'aspetto letterale, sarebbe difficilmente sostenibile che l'istituto della riapertura delle indagini possa estendersi alle "archiviazioni" adottate sulla base del regime del codice previgente.
In secondo luogo, in base alle regole del diritto intertemporale, gli effetti di un atto processuale, salve espresse previsioni derogatorie, sono regolati dalle norme vigenti al momento della sua adozione (v. in questo senso, per tutte, Cass. civ. , sez. Ili, 12 maggio 2000, n. 6099, Min. poi. agr. c. Posterino), e la disciplina del codice previgente, come detto, non contemplava alcuna necessità di un atto giudiziale che rimovesse gli effetti del provvedimento di archiviazione. Le norme di coordinamento del codice non offrono del resto indicazioni contrarie: come osservato dalla citata sentenza Larini, l'art. 232 disp. coord. c.p.p. equipara le sentenze istruttorie di non doversi procedere del codice del 1930 alle sentenze di non luogo a procedere del codice vigente, nonché ai provvedimenti di archiviazione per mancanza di una condizione di procedibilità o per essere rimasti ignoti gli autori del reato, non stabilendo alcuna assimilazione tra i provvedimenti archiviazione di vecchio e nuovo rito.
In terzo luogo, dal punto di vista della fisionomia degli istituti, va osservato che sussistono rilevanti differenze tra il provvedimento di non doversi promuovere l'azione penale ex art. 74 c.p.p. 1930 e quello di archiviazione ex artt. 409 e segg. c.p.p.
Quest'ultimo si basa sulla regola decisoria di cui all'art. 125 disp. att. c.p.p. (non idoneità degli elementi acquisiti nelle indagini a sostenere l'accusa in giudizio), e trova collocazione al termine delle indagini preliminari; mentre l'analogo provvedimento del codice previgente si basava sostanzialmente su una valutazione di manifesta infondatezza della notizia di reato ed era adottato in via alternativa all'inizio dell'attività istruttoria, costituente di per sé esercizio dell'azione penale.
Per usare le parole di una lontana pronuncia della Corte costituzionale (sent. n. 102 del 1964), il provvedimento adottato ex art. 74 c.p.p. 1930 "non chiude né definisce alcun procedimento istruttorio, che anzi dichiara di non voler iniziare" ed ha "il carattere di un atto che non preclude l'esercizio dell'azione penale".
Va infine considerato che l'attuale disciplina contempla un controllo giudiziale particolarmente pregnante sulla richiesta di archiviazione, essendo previste forme decisorie adottabili in contraddittorio, introdotte d'ufficio o su impulso della persona offesa (artt. 409 e 410 c.p.p.).
Può dunque fondatamente sostenersi che il provvedimento adottato ex art. 74 c.p.p. 1930 aveva una minore "stabilità" rispetto all'archiviazione disciplinata dagli artt. 409 e s. c.p.p., così da giustificare, in quello, la non necessità di un formale provvedimento di riapertura delle indagini una volta intervenuta l'archiviazione.
7.3. Deve concludersi che nella specie, trattandosi di un'archiviazione di "vecchio rito", non trova applicazione l'art. 414 c.p.p. e che bene è stata esercitata l'azione penale dallo stesso pubblico ministero romano sulla base di nuove valutazioni successive al provvedimento di archiviazione.

8. La eccezione di nullità delle notificazioni dedotta dal ***** appare infondata.
8.1. Con riferimento al procedimento di secondo grado, analoga eccezione era stata accolta dalla Corte di appello, che di conseguenza aveva disposto la rinnovazione della notificazione del decreto di citazione previe ricerche sulla residenza (accertata in
S. Marinella), dal che conseguì una nuova notificazione per la udienza del 12 febbraio 2008 fatta a mani dell'imputato.

Quanto al primo grado, risulta che la notificazione del decreto dispositivo del giudizio venne eseguita a mani della madre nel domicilio dell'imputato; e lo stesso deve dirsi per la notificazione dell'estratto contumaciale della sentenza.
Appare dunque che tutte le formalità di notificazione sono state eseguite nel domicilio a mani dell'imputato o di uno stretto familiare.
Il difensore, nell'atto di ricorso, sostiene che l'imputato aveva mutato domicilio, ma non precisa quando ciò sarebbe avvenuto; e soprattutto non deduce che l'imputato non aveva avuto notizia dalla madre del ricevimento dell'atto.
8.2. Con riferimento a tale ultima notazione, va ricordato
che, secondo i condivisibili principi affermati da Sez. un., 27
ottobre 2004, n. 119, Palumbo, in tema di notificazione della citazione dell'imputato, la nullità assoluta e insanabile prevista dall'art. 179 c.p.p. ricorre soltanto nel caso in cui la notificazione della citazione sia stata omessa o quando, essendo stata eseguita in forme diverse da quelle prescritte, risulti inidonea a determinare la conoscenza effettiva dell'atto da parte dell'imputato; la nullità assoluta non ricorre invece nei casi in cui vi sia stata esclusivamente la violazione delle regole sulle modalità di esecuzione, da cui consegue solo una nullità a regime intermedio, sanabile ex art. 184 c.p.p.; con la conseguenza che l'imputato che intenda eccepire la nullità della notificazione della citazione, non risultante dagli atti, non può limitarsi, come è da dire nella specie, a denunciare la inosservanza della relativa norma processuale, ma deve rappresentare di non avere avuto cognizione dell'atto e indicare gli specifici elementi che consentano l'esercizio dei poteri officiosi di accertamento da parte del giudice.

9. Appaiono infine infondati i rilievi in punto di affermazione della responsabilità penale.
9.1. Come emerge dalle sentenze di primo e secondo grado, la persona offesa ***** ha affermato che il ***** e il *****, tenendolo chiuso nel pub per tre-quattro ore, e minacciandolo che altrimenti "non sarebbe arrivato intero a casa", lo avevano costretto a cedere la sua quota (l'altra essendo di fatto di pertinenza di *****). Lo ***** ha anche precisato che non ricevette alcun compenso per la cessione. ***** *****, sorella di Sandro e moglie di *****, ha dichiarato di essere stata originariamente proprietaria del pub, che poi aveva lasciato in gestione al fratello *****, il quale era entrato in società con il *****, cedendo quindi la sua quota all'altro fratello Sandro; e che il *****, che reclamava del denaro da *****, si era rivalso nei confronti di Sandro, con il concorso del *****, chiudendolo nel locale e costringendolo a cedere la sua quota, come riferitole dallo stesso *****. Aveva inoltre trovato alla morte del marito una dichiarazione del ***** ammissiva dei fatti.
***** ***** ha dichiarato di avere saputo da Sandro delle minacce subite da parte del ***** e del *****. Ha aggiunto di averne successivamente parlato con il *****, che aveva sostanzialmente ammesso i fatti.
9.2. Contrariamente a quanto dedotto dal *****, la Corte di appello ha tenuto conto dei rilievi svolti nell'atto di impugnazione in punto di valutazione delle prove sulla responsabilità penale, osservando che le dichiarazioni della persona offesa apparivano univoche e coerenti, e che la loro attendibilità era confermata da quelle, in tutto conformi, rese dai fratelli ***** e ***** *****, cui il congiunto aveva riferito quanto accaduto nella immediatezza dei fatti; tanto più che ***** aveva precisato di avere personalmente raccolto la confessione resa al riguardo dal *****.
Non sono pertanto apprezzabili lacune o vizi logico-giuridici circa la idoneità delle prove acquisite a fondare un'affermazione di responsabilità degli imputati.

10. Al rigetto dei ricorsi consegue ex art. 616 c.p.p. la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.