SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 10 gennaio 2007, pronunciata a seguito di giudizio abbreviato, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Avellino condannava ***** alla pena di sei mesi di reclusione, condizionalmente sospesa, ritenendolo colpevole del reato di cui agli artt. 477 e 482 cod. pen. contestato al capo A) della rubrica (falso materiale relativo ad una carta d'identità e a un tesserino di codice fiscale); lo assolveva dal reato di cui all'art. 468 cod. pen. contestato sempre al capo A) e dai reati contestati al capo B) per insussistenza del fatto. Sul gravame proposto dalla difesa, la Corte d'appello di Napoli confermava il decisum del primo giudice, con sentenza del 14 novembre 2008, oggetto del presente ricorso per cassazione. I fatti in contestazione traevano origine dal protesto bancario per un assegno di 2.000,00 euro, emesso all'ordine di *****, agente assicurativo, ed elevato a carico di *****, che aveva acceso un conto corrente presso l'agenzia di Baronissi della Banca della Campania, esibendo, all'atto dell'apertura, la carta d'identità ed il codice fiscale di cui all'imputazione, nonché una busta paga attestante l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato con un'impresa locale, denominata "Millennium". Le indagini svolte avevano evidenziato che tutti i documenti presentati dal sedicente ***** erano falsi e che nessuna persona corrispondente a quel nominativo risultava essere dipendente della citata impresa "Millennium"; avevano, poi, consentito di individuare nell'odierno imputato l'autore dei fatti descritti.
Confermato il giudizio di colpevolezza, la Corte territoriale, così si esprimeva con riferimento al trattamento sanzionatorio: "Appare destituita di fondamento la doglianza finale quanto al contemperamento della pena all'entità del fatto: si osserva invero che la sanzione è stata determinata pressoché nel minimo (ad onta di una condotta di reato grave preordinata alla commissione di altri illeciti, in primis la truffa aggravata) e che comunque è proporzionata all'offesa arrecata al bene giuridico della pubblica fede, riguardando il documento d'identità personale. Non vanno considerate le richieste ulteriori (conversione della pena detentiva in pena pecuniaria) non essendo prevedibile, date le condizioni economiche dell'appellante ammesso al patrocinio gratuito e data anche la modalità di commissione del fatto, che onori puntualmente il pagamento della sanzione convertita". Il ricorso per cassazione proposto dal difensore dell'imputato verte soltanto sul diniego di conversione della pena detentiva con la pena pecuniaria della specie corrispondente, con contestuale revoca del beneficio della sospensione condizionale della pena; non sono, quindi, contestati né il giudizio di colpevolezza, né l'entità della pena inflitta. L'impugnazione poggia sull'assunto che la Corte d'appello di Napoli, pur non essendo specificato nella motivazione, ha ritenuto di applicare il disposto del terzo comma dell'art. 58 {mete: secondo comma) della L. n. 689 del 1981, il quale espressamente prevede che il giudice non possa sostituire la pena detentiva, quando presume che le prescrizioni non saranno adempiute dal condannato.
Sulla base di questo assunto, il ricorrente articola, sostanzialmente, due motivi: "a) violazione di legge per falsa interpretazione ed applicazione della legge penale in relazione agli artt. 58 e 53 e ss. L. 24 novembre 1981, n. 689. La Corte territoriale avrebbe ritenuto che detta norma sancisca il divieto di sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria in presenza di una presunzione di inadempimento, mentre tale criterio sarebbe estraneo alla previsione normativa e sarebbe correlato soltanto alla semidetenzione ed alla libertà controllata; b) illogicità della motivazione, anche per travisamento dei fatti, in riferimento al rigetto della richiesta di conversione della pena detentiva in pena pecuniaria. Si sostiene che erroneamente la sentenza impugnata avrebbe fatto discendere la conseguenza del presumibile inadempimento dall'ammissione dell'imputato al patrocinio a spese dello Stato. Si fa rilevare che l'istituto del patrocinio gratuito fa presumere solamente che il soggetto sia in possesso di un reddito limitato, ma non fa presumere necessariamente che tale limitata disponibilità esprima anche la sola possibilità di un futuro inadempimento. L'illogicità di simile conclusione è resa evidente anche dal fatto che manca, nella sentenza, qualsiasi riferimento alla possibilità di rateizzare la pena (fino a trenta rate mensili di circa 150 euro l'una) e quindi alla valutazione se tale rateizzazione potesse essere almeno sostenuta in termini realistici. Il ricorso era assegnato, per competenza tabellare ratione materìae, alla Quinta Sezione penale di questa Corte, la quale, alla pubblica udienza del 10.12.2009, ritenendo che la decisione comportasse la soluzione di una questione giuridica controversa, rimetteva il ricorso alle Sezioni Unite a norma dell'art. 618 cod. proc. pen. Con decreto del 17 febbraio 2010, il Presidente Aggiunto della Corte Suprema di Cassazione assegnava il ricorso in esame alla Sezioni unite penali, fissandone la trattazione all'udienza pubblica del 22 aprile 2010.
MOTIVI DELLA DECISIONE
La Quinta Sezione penale ha ritenuto che fosse dirimente ai fini della decisione, l'interpretazione da dare all'art. 58, comma secondo, della legge n. 689/1981; ha evidenziato, in particolare, che occorre definire la portata del termine "prescrizioni", se, cioè, la norma intenda estenderle anche all'obbligo di pagamento di una somma di denaro determinata, in sostituzione della pena detentiva, ovvero se le limiti alle sole ipotesi di sostituzione della pena detentiva con la semidetenzione o con la libertà controllata. Sul punto la Sezione rimettente rileva l'esistenza di un contrasto nella giurisprudenza di legittimità tra l'orientamento secondo cui la sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria sarebbe consentita anche nei confronti di persone che versino in condizioni di disagio economico (Sez. V, 12 novembre 2001 n. 42324, Cangeri, rv. 220880; Sez. Ili, 12 febbraio 2008, n. 13845, Diasse ed altro, rv. 239689) e l'indirizzo che ravvisa nel disposto dell'art. 58, comma secondo, L. n. 689 del 1981 la statuizione del divieto normativo di conversione della pena detentiva in pena pecuniaria nell'ipotesi in cui sia possibile esprimere un giudizio prognostico negativo sulla solvibilità del condannato, ritenendo altresì che detto giudizio possa essere tratto da presunzioni ricavabili da elementi fattuali dimostrativi di una situazione economica precaria e, in particolare (come nel caso di specie), dall'ammissione dell'imputato al patrocinio a spese dello Stato (Sez. V, 28 novembre 1997 n. 1455/98, Firas, rv. 209799; Sez. V, 23 novembre 2006 n. 528/07, Ferrara, rv. 235695; Sez. Ili, 19 settembre 2008 n. 39495, Diop, rv. 241323). Il primo orientamento, che trova una completa argomentazione nella sentenza 42324/01, si basa sulla constatazione che il sistema della conversione delineato dalla legge n. 689 del 1981 prevede l'imposizione di "prescrizioni" solo nel caso di sostituzione della pena detentiva con la semidetenzione o con la libertà controllata, con la conseguenza che la previsione del secondo comma dell'art. 58 non si riferirebbe all'ipotesi di sostituzione con pena pecuniaria, con il pregnante rilievo che l'eventuale ritenuta operatività del divieto anche per la sostituzione della detenzione con il pagamento di una somma di denaro, quando il condannato fosse persona non abbiente, darebbe ingresso ad un'interpretazione in contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza davanti alla legge (art. 3 Cost.), introducendo una disparità di trattamento per ragioni di censo tra persone che si trovano in situazione analoga. L'ordinanza di rimessione, tuttavia, non manca di sottolineare che a tale argomento potrebbe contrapporsene un altro di pari rango costituzionale, nel senso che una indiscriminata conversione, che prescindesse dalle capacità economiche del reo, comporterebbe la violazione dell'art. 27 Cost., in quanto il condannato non abbiente potrebbe sottrarsi alla pena detentiva e, in definitiva, alla pena tout court, data l'impossibilità del ripristino puro e semplice della pena detentiva nel caso di inadempimento dell'obbligo di pagamento (artt. 660 cod. proc. pen. dopo la sentenza n. 212 del 2003 della Corte costituzionale) semplicemente chiedendo la conversione. In tal modo verrebbe eluso il principio dell'emenda (art. 27, comma terzo, Cost.) e si verrebbe a configurare una disparità di trattamento a parti invertite, in favore del non abbiente. Per altro verso, viene rilevato che la lettera della norma non opera distinzioni tra le varie ipotesi di sostituzione della pena detentiva previste dall'art. 53, sicché il termine "prescrizioni" può ricomprendere anche la puntuale ottemperanza al provvedimento di conversione, qualunque sia la sua natura. Data la contrapposizione dei due orientamenti, l'ordinanza di rimessione reputa, quindi, opportuno demandare alle Sezioni unite l'interpretazione del dettato del secondo comma dell'art. 58 della legge n. 689 del 1981. La questione controversa rimessa alla cognizione di queste Sezioni Unite, pertanto, viene posta nei seguenti termini: "Se, in tema di sostituzione delle pene detentive brevi, la prognosi di inadempimento delle prescrizioni, che impedisce la sostituzione, attenga anche all'obbligo di pagamento della somma di denaro determinata in sostituzione della pena detentiva, ovvero riguardi esclusivamente le prescrizioni relative alla semidetenzione e alla libertà controllata". Questo Collegio ritiene che la corretta soluzione del quesito debba trarre origine da una disamina del contesto complessivo della disciplina delle sanzioni sostitutive delineata dalla legge 24 novembre 1981, n. 689. Ciò posto, risulta subito evidente che il legislatore ha delineato, per quanto riguarda la regolamentazione delle sanzioni sostitutive, un doppio binario, distinguendo nettamente tra la semidetenzione e la libertà controllata, da un lato, e le pene pecuniarie sostitutive, dall'altro. Per le prime, e soltanto per queste, - com'è del resto logico -, viene delineato un sistema di esecuzione, di modalità esecutive e di controllo sull'adempimento delle prescrizioni imposte con la sentenza di condanna; soltanto in relazione alle prime viene riprodotto, in taluni casi anche nella rubrica dell'articolo, il termine "prescrizioni". In particolare, gli arti 62 e 63 regolano le modalità di esecuzione e l'esecuzione della semidetenzione e della libertà controllata; l'art. 64 concerne la "modifica delle modalità di esecuzione della semidetenzione e della libertà controllata"; l'art. 65 detta disposizioni per la verifica periodica dell'adempimento delle prescrizioni imposte da parte degli uffici di pubblica sicurezza; l'art. 66 è dedicato aH'"inosservanza delle prescrizioni inerenti alla semidetenzione e alla libertà controllata"; così i successivi articoli dettati in tema di inosservanza e sospensione della semidetenzione e della libertà controllata. Per l'esecuzione delle pene pecuniarie, invece, non v'è alcun cenno a prescrizioni, ma l'art. 71 si limita a richiamare il dettato dell'art. 660, cod. proc. pen.; si tratta non già di una mera dimenticanza, bensì di una precisa distinzione. A questa conclusione si giunge attraverso tre ordini di considerazioni: 1) il valore non solo formale del dato letterale dell'art. 58 citato, che, come si è detto, rinvia a "prescrizioni" previste in concreto - attraverso una complessa ed articolata serie di norme - soltanto per le pene sostitutive più afflittive; 2) la ricostruzione della ratio legis, essendo evidente che l'adempimento di "prescrizioni" dettagliatamente indicate nei successivi articoli non può riguardare la pena sostitutiva in sé considerata, ma deve necessariamente collegarsi all'osservanza di specifici adempimenti prescrittivi, non previsti per la pena pecuniaria; 3) l'argomento sistematico, in relazione al generale orientamento del legislatore che ha inteso sempre più personalizzare le pene pecuniarie, tenendo conto delle condizioni economiche del condannato. A tal proposito viene correttamente sottolineato che il legislatore ha introdotto, proprio con la citata legge n. 689, l'art. 133 bis cod. pen., che prevede la possibilità di diminuire le pene pecuniarie, quando il giudice ritenga che la misura minima sia eccessivamente gravosa; che agli stessi principi si ispira la disposizione contenuta nell'art. 133 ter cod. pen., secondo la quale la pena pecuniaria (anche quella sostitutiva) può essere pagata in più rate mensili in relazione alle condizioni economiche del condannato. L'interpretazione restrittiva del secondo comma dell'art. 58 in esame, come sopra delineata, oltre che ad essere supportata da un'esegesi letterale, sistematica e fondata sulla ratio legis, si dimostra essere l'unica lettura costituzionalmente orientata delle norme coinvolte. Il diverso orientamento porterebbe, di fatto, all'affermazione che i cittadini, i quali non siano in condizioni economiche soddisfacenti, non possono ottenere il beneficio della sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria e creerebbe una disparità di trattamento tra cittadini che si trovino in situazioni analoghe. Per altro si tratterebbe di precludere in assoluto ad una determinata categoria di cittadini l'applicazione di una norma favorevole, mentre la pena pecuniaria, anche se sostitutiva di una pena detentiva, proprio attraverso l'istituto della rateizzazione può essere "personalizzata" e resa più aderente al principio di uguaglianza.
A conferma dì quanto esposto, appare opportuno fare un breve cenno sull'orientamento della giurisprudenza costituzionale, che, sia pure non direttamente riferibile alla materia in esame, tuttavia si dimostra utile per una più attenta riflessione. In buona sostanza il giudice delle leggi (sentenza n. 108/1987) ha sottolineato che una valutazione della disciplina contenuta nella legge n. 689 del 1981 porta a concludere che essa costituisce l'attuazione del bilanciamento di valori costituzionali; "il preminente rilievo che, nel bilanciamento, va assegnato al principio d'uguaglianza implica però che si adottino disposizioni che, agevolando l'adempimento della pena pecuniaria e rendendo effettivo il controllo sulla sussistenza di reali situazioni d'insolvibilità, circoscrivano nella massima misura possibile l'area di concreta operatività della conversione: il che si rende necessario anche al fine di pervenire ai risultati additati dal secondo comma del'art. 3 Cost., il cui essenziale rilievo nella materia in questione è stato già sottolineato nella sentenza n. 131/1979". In quest'ultima sentenza la Corte costituzionale aveva enunciato il principio che, a giustificare la disciplina vigente della conversione della pena pecuniaria in pena detentiva, non vale richiamarsi alla inderogabilità delle pena, che, in quanto sanzione criminale, deve poter essere eseguita a carico di tutti i destinatari; che sotto il profilo considerato non si deve confondere il concetto di inderogabilità della pena con quello della sua materiale ineseguibilità ovvero della sua differibilità in presenza di situazioni che appaiono meritevoli di considerazione. Sulla base delle considerazioni fin qui svolte, deve darsi, quindi, risposta negativa alla questione posta a queste Sezioni Unite, che può così essere specificata: "Se, in tema di sostituzione delle pene detentive brevi, il secondo comma dell'art. 58 della legge 24 novembre 1981, n. 689 si riferisca anche all'ipotesi di sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria". Sotteso a questa soluzione, risultante dall'analisi complessiva della normativa sulle sanzioni sostitutive, è II principio di diritto, secondo cui la sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria a norma dell'art. 58 della legge 24 novembre 1981 n. 689 è consentita anche in relazione a condanna inflitta a persona in condizioni economiche disagiate, in quanto la presunzione di inadempimento, ostativa in forza del secondo comma dell'articolo citato, si riferisce soltanto alle pene sostitutive di quella detentiva accompagnate da prescrizioni (semidetenzione o con la libertà controllata), e non alla pena pecuniaria sostitutiva, che non prevede alcuna prescrizione particolare. La ratio delle pene sostitutive ha natura premiale; cerniera del sistema diventa il primo comma dell'art. 58, poiché il giudice, nell'esercitare il suo potere discrezionale di sostituire le pene detentive brevi con le pene pecuniarie corrispondenti, con la semidetenzione o con la libertà controllata, deve tenere conto dei criteri indicati nell'art. 133 cod. pen., tra i quali è compreso quello delle condizioni di vita individuale, familiare e sociale dell'imputato, ma non quello delle sue condizioni economiche. La valutazione discrezionale del giudice deve essere, quindi, sorretta da congrua ed adeguata motivazione, che dovrà tenere in particolare considerazione, tra gli altri criteri, le modalità del fatto per il quale è intervenuta condanna e la personalità del condannato. Passando all'esame specifico del ricorso, si osserva che la Corte napoletana, sul gravame dell'imputato, è pervenuta a una conclusione corretta, sia pure enunciando un principio di diritto errato, ma fornendo nel contempo validi elementi di valutazione ai sensi dell'art. 133 cod. pen. Il principio errato, in quanto in contrasto con quello ora affermato da queste Sezioni Unite, si rinviene nel dictum: "Non vanno considerate le richieste ulteriori (conversione della pena detentiva in pena pecuniaria) non essendo prevedibile, date le condizioni economiche dell'appellante ammesso al patrocinio gratuito, che onori puntualmente il pagamento della sanzione convertita". Dall'intero contesto motivazionale ed argomentativo svolto riguardo al trattamento sanzionatorio e alla richiesta di conversione, nonché dalle complessive valutazioni del fatto e della personalità dell'imputato, operate dalla Corte dì merito, emerge, tuttavia, che la Corte stessa ha utilizzato, contestualmente, anche criteri strettamente pertinenti al dettato dell'art. 133 cod. pen.. In particolare ha sottolineato la pregnanza del fatto, "connotato da una condotta di reato grave preordinata alla commissione di altri illeciti, in primis la truffa aggravata" e le pervicaci modalità dello stesso, che ha arrecato un'intensa "offesa al bene giuridico della pubblica fede, riguardando il documento d'identità personale". In buona sostanza la Corte di appello di Napoli ha ritenuto il Gagliardi non meritevole dell'applicazione del chiesto istituto premiale, non soltanto per l'affermazione (errata) della presunta insolvibilità, bensì per la sussistenza di elementi ostativi, ravvisati nella gravità della condotta di un soggetto che ha usato, preordinatamene, una falsa carta d'identità, un falso tesserino di codice fiscale (ed una falsa busta paga) per accendere un conto corrente, in forza del quale pagare una polizza assicurativa di 2.000,00 euro, con un assegno bancario poi protestato. La sentenza impugnata - una volta specificato e rettificato, nei sensi sopra indicati, l'errore di diritto contenuto nella motivazione - non va annullata, poiché l'errore non ha avuto influenza decisiva sul dispositivo, fondato su ulteriori argomentazioni prive di vizi logico-giuridici e quindi non suscettibili di critiche in sede di legittimità: il ricorso deve essere rigettato, con ogni ulteriore conseguenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.