RITENUTO IN FATTO 1. L'11 marzo 2013 il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli emetteva nei confronti di **** **** ordinanza di custodia cautelare in carcere in ordine ai seguenti reati: - reimpiego, in concorso con altre persone (artt. 81 cpv., 110, 648 ter cod. pen.), di ingenti capitali riconducibili all'attività delle associazioni di stampo camorristico denominate "clan dei casalesi" e "clan degli acerrani", aggravato ai sensi dell'art. 7 d.l. n. 152 del 1991, conv. dalla legge n. 203 del 1991, per avere commesso il fatto al fine di agevolare il sodalizio camorristico denominato "clan dei casalesi"; in relazione a tale condotta, il ricorrente veniva indicato, insieme con **** **** e **** ****, quale soggetto referente diretto del "clan dei casalesi" e, in particolare, di **** **** e **** ****, capi e reggenti dell'omonima famiglia, al vertice del sodalizio (capo 1); - concorso nell'intestazione fittizia di società (artt. 110, 81 cpv. cod. pen., 12-quinquies d.l. n. 306 del 1992, conv. dalla legge n. 356 del 1992) al fine di eludere le disposizioni in materia di misure di prevenzione patrimoniale, di sequestro preventivo e confisca dei beni frutto di reimpiego di capitali illeciti, aggravato ai sensi dell'art. 7 d.l. n. 152 del 1991, per avere commesso il fatto con le modalità previste dall'art. 416-bis cod. pen e al fine di agevolare il sodalizio camorristico denominato "clan dei casalesi" (capo 5); - partecipazione, con ruolo di promotore ed organizzatore, ad un'associazione per delinquere finalizzata alla cessione di sostanze stupefacenti del tipo eroina e cocaina (artt. 74, commi 1, 2, 3, 4, d.P.R. n. 309 del 1990); con l'ulteriore aggravante di cui all'art. 7 d.l. n. 152 del 1991, per avere commesso il fatto al fine di agevolare il sodalizio camorristico denominato "clan dei casalesi" (capo 6); - acquisto, detenzione e cessione, in concorso con altri, di cinque chili di sostanza stupefacente di qualità non precisata (art. 110 cod. pen., 73 d.P.R. n. 309 del 1990); con l'aggravante di cui all'art. 7 d.l. n. 152 del 1991, per avere commesso il fatto al fine di agevolare il sodalizio camorristico denominato "clan dei casalesi" (capo 10). 2. Il 30 aprile 2013 il Tribunale di Napoli, costituito ai sensi dell'art. 309 cod. proc. pen., rigettava, limitatamente ai capi 1 e 5 dell'imputazione provvisoria, la richiesta di riesame proposta da **** **** tramite il difensore di fiducia. Dichiarava, con riguardo ai reati di cui agli artt. 74 e 73 d.P.R. n. 309 del 1990 (capi 6 e 10), l'incompetenza territoriale del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli e disponeva la trasmissione degli atti alla Direzione Distrettuale antimafia presso il Tribunale di Bologna, ravvisando la competenza dell'autorità giudiziaria di Rimini. 3. Il Tribunale, dopo avere ricostruito la genesi della vicenda processuale - riconducibile alle indagini finalizzate alla cattura del latitante Sigismondo Di Puorto, imputato dei delitti di associazione di stampo camorristico ed estorsione - illustrava gli elementi d'indagine (contenuto delle intercettazioni telefoniche e ambientali; dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Salvatore Laiso, Giuseppe Pagano, Giampiero Siciliano, Enrico Chierchiello, Raffaele Piccolo, Roberto Vargas, Massimo Venosa; dichiarazioni rese dalle persone informate sui fatti e dalle parti offese del delitto di cui all'art. 629 cod. pen. Michel Burgagni, Elena Shchegoleva; acquisizioni documentali) che integravano il quadro di gravità indiziaria nei confronti di ****. Ad avviso dei giudici del riesame, le risultanze investigative delineavano l'operatività del "clan dei casalesi", la relativa struttura associativa e organizzativa, i settori di attività controllati, i rilevanti profitti acquisiti mediante la gestione dei videopoker, alla vendita sul mercato estero di autovetture di grossa cilindrata acquistate in leasing e non pagate, alle estorsioni soprattutto in danno dei cantieri, cui veniva imposto l'acquisto di prodotti trattati dall'organizzazione in regime di monopolio. Le ingenti somme di denaro ricavate grazie alle suddette attività illecite, poste in essere in un ambito territoriale compreso tra le Marche, l'Emilia Romagna, la Repubblica di San Marino, venivano poi reimpiegate tramite una società (Fincapital s.p.a.), avente ad oggetto l'erogazione di credito al consumo. Alla stregua della contestazione contenuta nel capo 1, **** **** e gli altri correi, «non avendo concorso nel delitto presupposto di cui all'art. 416-bis cod. pen.», si occupavano di reimpiegare ingenti capitali (pari ad almeno cinque milioni di euro, provento del delitto di associazione per delinquere di stampo camorristico) in quote della Fincapital s.p.a nella loro qualità di «soggetti referenti diretti di Schiavone Carmine e Nicola, capi e reggenti della famiglia Schiavone al vertice del "clan dei casalesi" e delegati a sovraintendere e dirigere l'attività di reimpiego e riciclaggio di patrimoni illeciti del predetto clan» (testualmente in tal senso il capo 1 dell'incolpazione provvisoria). I capitali venivano restituiti solo in parte al clan dagli amministratori della Fincapital s.p.a., mediante la cessione di un aliud pro alio e, in particolare, di un'autovettura Ferrari modello Scaglietti (di valore stimato non inferiore a trecentomila euro), e di cinque unità abitative situate nel comune di Montegrimano Terme, di proprietà della Imcapital s.r.l. (società immobiliare partecipata dalla Fincapital s.p.a.), anch'essa intestata a persone riconducibili al gruppo camorristico dei "casalesi". L'ulteriore descrizione della condotta di reimpiego di capitali illeciti ascritta a **** **** (capo 1) conteneva il riferimento al suo ruolo di «esponente del clan dei casalesi» che si occupava, tra l'altro, dell'amministrazione della Publione s.a.s, destinataria di molteplici pagamenti, erogati a titolo di restituzione del capitale illecito investito in Fincapital s.p.a. dal suddetto sodalizio di stampo camorristico. L'ordinanza del Tribunale di Napoli individuava proprio nel ricorrente **** (oltre che negli altri due indagati Ponticelli e Barbato), l'esponente dell'organizzazione camorristica preposto alla direzione dell'attività di reimpiego e di riciclaggio del patrimonio illecito (f. 23 dell'ordinanza impugnata). In un altro passaggio motivazionale si osservava testualmente: «**** **** è [...] l'esponente dei casalesi, fazione Schiavone, preposto al controllo degli investimenti dei capitali provenienti dalla cassa del sodalizio» (f. 50). «Egli è inserito stabilmente e organicamente nella struttura organizzativa dell'associazione camorristica denominata "clan dei casalesi" e [...] prende parte alla stessa, ponendo in essere le condotte dinamiche e funzionalistiche contestategli, allineate all'effettivo ruolo e ai compiti affidatigli, per consentire al sodalizio il perseguimento dei suoi scopi» (f. 52). Secondo l'impostazione accusatoria, le attività di reimpiego dei capitali illeciti venivano svolte, oltre che da ****, da numerose altre persone, tra cui **** ****, incaricato di fungere da referente del clan camorristico "degli acerrani", federato con quello dei "casalesi", e da «emissario e fautore delle alleanze con quest'ultimo clan per l'attività di reimpiego dei capitali illeciti presso operatori finanziari operanti nella Repubblica di San Marino e nelle Marche e incaricato di verificare la redditività degli investimenti provento della illecita attività di svolgimento dell'associazione camorristica sia per conto del "clan dei casalesi" che per conto del gruppo degli "acerrani"» (cfr. capo 1). Nelle attività illecite di reimpiego erano coinvolti anche altri prestanome di società riferibili interamente al gruppo camorristico dei "casalesi" o della Fincapital s.p.a., funzionali alle diverse condotte di reimpiego con corresponsione di utili ai gruppi criminali, nonché liberi professionisti (un avvocato e un notaio, alcuni assicuratori) che avevano il compito di porre in essere le operazioni legali idonee a realizzare gli scopi illeciti di reimpiego e di fornire, in generale, ausilio legale alle parti per consentire l'occultamento delle partecipazioni camorristiche nelle società e procurare il passaggio ai clan dei beni frutto del reimpiego dei capitali illeciti. 4. Il problema della configurabilità del concorso fra i delitti di cui all'art. 648- tercod. pen. e quello di cui all'art. 416-bis cod. pen., nei casi in cui il reimpiego riguardi beni o utilità provenienti proprio dal delitto di associazione mafiosa, non veniva espressamente affrontato dal Tribunale, che, sul punto, operava un rinvio alle argomentazioni contenute nel provvedimento applicativo della misura cautelare personale, ritenute condivisibili. Secondo l'ordinanza applicativa della misura, il reato previsto dall'art. 648-tercod. pen. non è configurabile quando la condotta di reimpiego riguardi denaro, beni o altra utilità, la cui provenienza illecita trova fonte nell'attività costitutiva dell'associazione mafiosa ed è rivolta ad associato cui quell'attività sia concretamente attribuibile (Sez. 6, n.25633 del 24/5/2012, Schiavone, Rv. 253010). Il 28 novembre 2011 il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli emetteva nei confronti di **** ed altri coindagati, nell'ambito di un diverso procedimento penale (denominato "il principe"), ordinanza di custodia cautelare in carcere in ordine al delitto di partecipazione ad associazione per delinquere di stampo camorristico- reato presupposto, fonte dei proventi illeciti - così formulato: «a) [...] 110, 416-bis, I, II, III, IV, V, VI e Vili comma, cod. pen., perché, nella consapevolezza della rilevanza causale del proprio apporto, partecipavano - ovvero fornivano da concorrenti esterni al sodalizio, uno stabile e rilevante contributo - ad una associazione di tipo mafioso denominata "clan dei Casalesi", promossa, diretta ed organizzata, prima, da Bardellino Antonio (anni 1981- 1988), poi, da Francesco Schiavone di Nicola, da Francesco Bidognetti, da Iovine Mario e da De Falco Vincenzo (1988-1991), poi dai soli Francesco Schiavone di Nicola e da Francesco Bidognetti, infine da Guida Luigi, Setola Giuseppe, Schiavone Francesco di Luigi, Schiavone Nicola di Francesco e Zagaria Michele, anche in accordo con Bidognetti Francesco e Schiavone Sandokan (detenuti rispettivamente dalla fine del 1993 e dall'estate del 1998) che, operando sull'intera area della provincia di Caserta ed altrove, si avvale della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento ed omertà che ne deriva, per la realizzazione dei seguenti scopi: il controllo delle attività economiche, anche attraverso la gestione monopolistica di interi settori imprenditoriali e commerciali; il rilascio di concessioni e di autorizzazioni amministrative; l'acquisizione di appalti e servizi pubblici; l'illecito condizionamento dei diritti politici dei cittadini (ostacolando il libero esercizio del voto, procurando voti a candidati indicati dall'organizzazione in occasione di consultazioni elettorali) e, per tale tramite, il condizionamento della composizione e delle attività degli organismi politici rappresentativi locali; il condizionamento delle attività delle amministrazioni pubbliche, locali e centrali; il reinvestimento speculativo in attività imprenditoriali, immobiliari, finanziarie e commerciali degli ingenti capitali derivanti dalle attività delittuose, sistematicamente esercitate (estorsioni in danno di imprese affidatane di pubblici e privati appalti e di esercenti attività commerciali, traffico di sostanze stupefacenti, truffe in danno della C.E.E., usura ed altro); assicurare impunità agli affiliati attraverso il controllo, realizzato anche con la corruzione, di organismi istituzionali; l'affermazione del controllo egemonico sul territorio realizzata anche attraverso la contrapposizione armata con organizzazioni criminose rivali [...]; il conseguimento, infine, per sé e per gli altri affiliati di profitti e vantaggi ingiusti [...]. In particolare, Russo Massimo, latitante, Russo Antonio, Capasso Maurizio, **** ****, Martino Giuliano e Capasso Salvatore partecipavano al gruppo camorrista con compiti operativi nel settore delle estorsioni, del reinvestimento dei proventi illeciti, dei rapporti con il mondo politico, veicolando sul territorio ed eseguendo gli ordini provenienti dai congiunti detenuti [...]. In provincia di Caserta, a partire dall'anno 2000 (per il solo Russo dal 2005) con condotta perdurante». Il Tribunale del riesame, nel menzionare questo secondo provvedimento limitativo della libertà personale emesso nei confronti di ****, argomentava che la contestazione del reato di associazione di stampo camorristico, formulata nell'ambito del separato procedimento penale, non era ostativa alla configurabilità del delitto di reimpiego di capitali illeciti, oggetto della presente procedura, avuto riguardo al peculiare ruolo attribuito a **** e agli altri correi, indicati non quali capi, promotori, reggenti del "clan dei casalesi" e di quello alleato dei Mariniello, bensì quali meri esecutori di direttive altrui. 5. Con riferimento ai rapporti tra i delitti di ricettazione (art. 648 cod. pen.), riciclaggio (art. 648-bis cod. pen.), reimpiego (art. 648-ter cod. pen.), il Tribunale osservava che le tre fattispecie sono accomunate dalla provenienza dei beni da delitto e si distinguono sotto il profilo soggettivo: la ricettazione richiede solo il dolo di profitto, mentre i reati previsti dagli artt. 648-bis e 648-ter cod. pen. richiedono la specifica finalità di far perdere le tracce dell'origine illecita; il delitto di cui all'art. 648-tercod. pen. richiede, inoltre, che l'attività di reimpiego avvenga mediante l'impiego delle risorse di origine illecita in attività economiche o finanziarie. Pertanto il delitto di reimpiego è in rapporto di specialità con il delitto di riciclaggio e questo, a sua volta, con il reato di ricettazione (Sez. 2, n. 18103 del 10/01/2003, Sirani, Rv. 224394; Sez. 4, n. 6534 del 23/03/2000, Ascieri, Rv. 216733). La clausola di riserva contenuta nell'art. 648-ter cod. pen. comporta che tale disposizione non trovi applicazione nei casi di concorso nel reato presupposto e nelle ipotesi in cui risultino realizzate fattispecie di ricettazione e riciclaggio. Il criterio d'interpretazione letterale dell'art. 648-ter cod. pen. deve essere integrato mediante canoni ermeneutici di tipo logico¬sistematico alla cui stregua è possibile affermare che rientrano nell'ambito dell'art. 648-ter cod. pen. le condotte «poste in essere, con unità di determinazione finalistica originaria, dai soggetti che hanno sostituito o ricevuto denaro allo scopo di impiegarlo in attività economiche o finanziarie» (f. 51 ordinanza impugnata). Il criterio discretivo tra riciclaggio e reimpiego di capitali è, quindi, costituito dalla molteplicità ovvero dalla unicità di condotte e dalle sottese determinazioni volitive. Pertanto, se un soggetto sostituisce denaro di provenienza delittuosa con altro denaro ovvero altre utilità e poi impiega i proventi derivanti da tale operazione in attività economiche o finanziarie, la condotta così realizzata integra il delitto di riciclaggio (art. 648-bis cod. pen.), attesa la clausola di sussidiarietà contenuta nell'art.648-ter. Per converso, qualora il denaro di provenienza illecita sia direttamente impiegato in attività economiche o finanziarie, tale condotta integra il reato previsto dall'art. 648-ter cod. pen. Alla stregua di questa impostazione esegetica, le condotte contestate a **** integrano, ad avviso del Tribunale, gli elementi costitutivi del delitto di reimpiego di capitali illeciti (art. 648-ter cod. pen.). 6. Avverso la suddetta ordinanza ricorre l'avv. Giuseppe Stellato, difensore di fiducia di ****, che formula le seguenti censure. Deduce violazione di legge e difetto di motivazione con riferimento al mancato accoglimento dell'eccezione preliminare di improcedibilità in relazione al reato di reimpiego di capitali illeciti (art. 648-ter cod. pen.). Evidenzia, in proposito, la sostanziale identità dei fatti contestati a **** nei due distinti procedimenti penali. Il ricorrente risulta, infatti, contemporaneamente indagato per il reato di cui all'art.416-ò/s cod. pen. (con l'aggravante prevista dal sesto comma di tale disposizione) in un procedimento (denominato "il principe") non ancora definito, con l'accusa di avere partecipato ad un'associazione di stampo camorristico i cui proventi illeciti sono oggetto della contestazione di reimpiego ex art. 648-ter cod. pen., formulata nell'ambito della presente procedura. Quanto al rilievo in base al quale il Tribunale del riesame aveva ritenuto compatibili le due contestazioni, la difesa rileva che dall'ordinanza applicativa della misura cautelare personale in ordine al delitto previsto dall'art. 416-bis cod. pen. (per il quale è in corso il giudizio abbreviato) si evince che **** era un soggetto associato con compiti anche nel settore del reinvestimento dei capitali illeciti, stante il tenore del riferimento specifico contenuto nel capo d'imputazione relativo al capo sub a); «[...] Russo Massimo, latitante, Russo Antonio, Capasso Maurizio, **** Mario, Martino Giuliano e Capasso Salvatore partecipavano al gruppo camorrista con compiti operativi nel settore delle estorsioni, del reinvestimento dei proventi illeciti, dei rapporti con il mondo politico, veicolando sul territorio ed eseguendo gli ordini provenienti dai congiunti detenuti». Atteso che dalla lettera dell'art. 648-ter cod. pen. e, in particolare, dalla clausola di riserva in essa contenuta si evince che l'ordinamento esclude la sussistenza di ipotesi di autoriciclaggio, il reato in esame non è configurabile, quando la contestazione del reimpiego abbia ad oggetto denaro, beni o utilità provento del delitto di associazione di stampo camorristico ed essa sia riferita ad un soggetto che sia associato al medesimo gruppo sodalizio, specificamente dedito a tali attività di reinvestimento dei proventi delittuosi. Non è, quindi, ravvisabile un concorso tra il delitto presupposto ed il successivo reimpiego del provento dello stesso. Il ricorrente, nel denunciare l'assenza di motivazione specifica sulla questione da parte del Tribunale del riesame, osserva che le argomentazioni sviluppate dal Giudice per le indagini preliminari (richiamate dal Tribunale) si fondano su un'interpretazione contra legem nella parte in cui si osserva che la clausola di sussidiarietà contenuta nell'art. 648-ter cod. pen. non si applica a coloro che, come ****, hanno una posizione non apicale all'interno dell'organizzazione ex art. 416-bis cod. pen. Il ricorrente lamenta, inoltre, violazione di legge e difetto di motivazione con riferimento ai canoni di valutazione della prova in ordine ai delitti di reimpiego (art. 648-ter cod. pen.) e di trasferimento fraudolento di valori (art. 12- quinquies d.l. n. 306 del 1992), entrambi aggravati ai sensi dell'art. 7 d.l. n. 152 del 1991. Osserva, in proposito, che non sono stati acquisiti elementi dimostrativi della sussistenza degli elementi costitutivi dei reati contestati e di un qualsiasi coinvolgimento specifico dell'indagato nelle condotte delittuose, il provvedimento impugnato non specifica in alcun modo le condotte asseritamente poste in essere da Iavarazzzo, le operazioni di reimpiego a lui riconducibili, il ruolo effettivamente avuto nella consumazione degli illeciti. Denuncia, inoltre, difetto di motivazione in relazione alla contestata aggravante dell'art. 7 del d.l. n.152 del 1991. Da ultimo lamenta violazione di legge e difetto di motivazione con riguardo alle esigenze cautelari, che non sono state oggetto di compiuta illustrazione nel provvedimento impugnato, oltre che nell'ordinanza genetica. 7. La Prima Sezione penale, cui il ricorso era stato assegnato rattorte materiae, registrata l'esistenza di un contrasto di giurisprudenza sul tema centrale che ha formato oggetto del ricorso, con ordinanza del 1° ottobre 2013 (depositata il successivo 28 novembre), ha rimesso il ricorso medesimo alle Sezioni Unite, a norma dell'art. 618 cod. proc. pen. 7.1. L'ordinanza di rimessione osserva che, nella giurisprudenza della Suprema Corte, esistano due orientamenti interpretativi. Il primo indirizzo, parte dalla considerazione che tra il delitto di riciclaggio e quello di associazione per delinquere non esiste alcun rapporto di "presupposizione" e non opera la clausola di riserva ("fuori dei casi di concorso nel reato") che qualifica la disposizione incriminatrice del delitto di riciclaggio dei beni provenienti dall'attività associativa. Pertanto, il concorrente nel reato associativo può essere chiamato a rispondere del delitto di riciclaggio dei beni provenienti dall'attività associativa sia quando il delitto presupposto sia da individuare nei delitti-fine attuati in esecuzione del programma criminoso dell'associazione (Sez. 2, n. 44138 del 08/11/2007, Rappa, Rv. 238311; Sez. 2, n. 40793 del 23/09/2005, Cardati, Rv. 232524; Sez. 2, n. 10582 del 14/02/2003, Bertolotti, Rv. 223689) sia quando il delitto presupposto sia costituito dallo stesso reato associativo di per sé idoneo a produrre proventi illeciti, rientrando tra gli scopi dell'associazione anche quello di trarre vantaggi o profitti da attività economiche lecite per mezzo del metodo mafioso (Sez. 1, n. 1439 del 27/11/2008, Benedetti, Rv. 242665). Sulla stessa linea, Sez. 1, n. 40354 del 27/05/2011, Calabrese, Rv. 251166; Sez. 2, n. 27292 del 04/06/2013, Aquila, Rv. 255712. Tali principi opererebbero anche con riguardo al delitto previsto dall'art. 648-tercod. pen. In base al secondo indirizzo, una volta che il delitto associativo di tipo mafioso sia ritenuto potenzialmente idoneo a costituire il reato presupposto dei delitti di riciclaggio e di illecito reimpiego, non sono ravvisabili ragioni ermeneutiche per escludere anche per esso l'operatività della cosiddetta clausola di riserva "fuori dei casi di concorso nel reato", contenuta negli artt. 648-bis e 648-tercod. pen. (Sez. 6, n. 25633 del 24/05/2012, Schiavone, Rv. 253010). 7.2. Alla luce del rilevato contrasto, la Prima Sezione penale, nel rimettere il ricorso alle Sezioni Unite, ha così formulato la questione di diritto: "Se sia configurabile il delitto di 'riciclaggio' previsto dall'art. 648-ter cod. pen. nei confronti di un imputato al quale sia stato contestato anche il delitto previsto dall'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., nel caso in cui il reimpiego riguardi capitali provenienti dalla attività illecita svolta dalla stessa associazione mafiosa di appartenenza". 8. Con decreto del 14 dicembre 2013, il Primo Presidente ha disposto l'assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, così riformulando il quesito di diritto: "Se sia configurabile il concorso tra i delitti di cui agii artt. 648-bis o 648- ter cod. pen. e quello di cui all'art. 416-bis cod. pen., quando la contestazione di riciclaggio o reimpiego riguardi beni o utilità provenienti proprio dal delitto di associazione mafiosa". Per la trattazione del ricorso è stata fissata l'odierna udienza in camera di consiglio. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il quesito sul quale le Sezioni Unite sono chiamate a pronunciarsi è dunque il seguente: "Se sia configurabile il concorso tra i delitti di cui agli artt. 648-bis o 648-ter cod. pen. e quello di cui all'art. 416-bis cod. pen., quando la contestazione di riciclaggio o reimpiego riguardi denaro, beni o altre utilità provenienti proprio dal delitto di associazione mafiosa". 2. Ai fini del corretto inquadramento delle problematiche sottoposte all'esame del Collegio occorre prendere le mosse dagli interventi legislativi che hanno introdotto nell'ordinamento penale i delitti previsti dagli artt. 648-bis e 648-tercod. pen. 2.1. Il d.l. 21 marzo 1978, n. 59, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 maggio 1978, n. 191, inseriva il nuovo art. 648-bis cod. pen. sotto la significativa rubrica «Sostituzione di denaro o valori provenienti da rapina aggravata, estorsione aggravata, sequestro di persona a scopo di estorsione». Veniva in tal modo per la prima volta disciplinata un'autonoma fattispecie incriminatrice volta a perseguire le condotte di "trasformazione" dei beni provenienti da un numero chiuso di delitti, condotte che, in precedenza, ricadevano nelle previsioni della ricettazione, del favoreggiamento personale o di quello reale, a seconda dei relativi dati tipizzanti e dell'elemento soggettivo. In questa prima fase, l'attenzione del legislatore era prevalentemente rivolta ad ostacolare e a reprimere i reati-presupposto, come desumibile dalla struttura del delitto quale reato a consumazione anticipata, per la configurabilità del quale erano sufficienti "fatti" o "atti" diretti alla sostituzione del denaro o dei valori, posti in essere al fine di procurare a sé o ad altri un profitto. La nuova figura criminosa si caratterizzava, quindi, per la sua peculiare e ambivalente fisionomia: esso, infatti, non si connotava per una sua spiccata autonomia né era rivolto al contrasto del "riciclaggio" in quanto tale, ma svolgeva piuttosto una funzione sussidiaria rispetto ai reati presupposto, di cui condivideva l'oggetto giuridico, comprensivo della tutela non del solo patrimonio, ma anche dell'ordine pubblico; al contempo, al pari della ricettazione e del favoreggiamento personale e reale, prevedeva una "clausola di esclusione" rispetto all'ipotesi del concorso nei reati presupposto. 2.2. Le modifiche apportate all'art. 648-bis cod. pen. dall'art. 23 legge 19 marzo 1990, n. 55 («Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale»), motivate dall'esigenza di conformare la normativa interna agli impegni assunti in sede di adesione alla Convenzione delle Nazioni Unite contro il traffico di stupefacenti (adottata a Vienna il 20 dicembre e ratificata con legge 5 novembre 1990, n. 328), caratterizzavano in maniera più accentuatamente autonoma il reato. Esse costituivano altresì il recepimento, sul versante interno, dei principi affermati dalla Dichiarazione dei principi di Basilea del 12 dicembre 1988 e dal Comitato internazionale di esperti delle Amministrazioni finanziarie per lo studio del riciclaggio, (cd. "Comitato di azione finanziaria", GAFI) in seno al vertice dei Capi di Stato e di Governo dei sette Paesi più industrializzati svoltosi a Parigi nel 1989, dal quale ha tratto origine una parte significativa della normativa in questa materia. Oltre ad assumere l'espressa denominazione di "riciclaggio", la fattispecie incrimi natrice estendeva il novero dei reati presupposto ai delitti concernenti la produzione o il traffico di sostanze stupefacenti. Ampliava, inoltre, l'oggetto materiale della condotta («denaro, beni o altre utilità»), riferito non solo a proventi derivanti da atti ablatori di ricchezze, ma anche a quelli originati da processi creativi delle stesse ed espressivi di realtà economiche più complesse. Eliminava ogni richiamo alla finalità di procurare a sé o ad altri profitto o aiuto, con il chiaro intento di recidere definitivamente qualsiasi collegamento con i reati di ricettazione e di favoreggiamento. Aggravava, poi, il complessivo trattamento sanzionatorio e introduceva un'aggravante per l'ipotesi in cui il fatto fosse stato commesso nell'esercizio di un'attività professionale, così rivelando una nuova consapevolezza della dimensione di criminalità economica organizzata espressa dal reato. 2.3. Con la legge 9 agosto 1993, n. 328, che ratificava e dava esecuzione alla Convenzione sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca di proventi del reato, adottata dal Consiglio d'Europa a Strasburgo l'8 novembre 1990, il testo dell'art. 648-bis cod. pen. subiva ulteriori modifiche: veniva eliminata la categoria "chiusa" dei reati-presupposto, estesa a tutti i delitti non colposi; la condotta materiale del reato era estesa non solo alla sostituzione dei beni, bensì anche al trasferimento dei proventi illeciti - evocativo di meccanismi traslativi di occultamento della genesi delle ricchezze - e al compimento di «altre operazioni in modo da ostacolare l'identificazione», comportamento quest'ultimo indicativo di uno scopo, più che di un evento, a differenza di quanto in precedenza previsto («ostacola l'identificazione»). Per tale via veniva assicurata la tutela penale a tutte e tre le fasi attraverso le quali si realizza il riciclaggio: a) il "collocamento" (placement), consistente nell'insieme delle operazioni intese a trasformare il denaro contante in moneta scritturale ovvero in saldi attivi presso intermediari finanziari; b) la stratificazione (layering), comprendente qualsiasi operazione che fornisce alla ricchezza proveniente da reato una copertura tale da renderne apparentemente legittima la provenienza; c) l'integrazione (integration), consistente nella reimmissione della ricchezza ripulita nel circuito economico legale. 2.4. Con l'art. 24 della legge 19 marzo 1990, n. 55, era poi stato introdotto nel codice penale l'art. 648-ter («Impiego di denaro, beni o altre utilità di provenienza illecita»), che configurava come illecito penale l'impiego in attività economiche o finanziarie di quegli stessi proventi illeciti (denaro, beni e altre utilità) richiamati nella descrizione dell'oggetto materiale del delitto di riciclaggio. La ratio della disposizione era quella di non lasciare vuoti di tutela a valle dei delitti di riciclaggio e ricettazione e di sanzionare anche la fase terminale delle operazioni di recycling (il c.d. integration stage), ossia l'integrazione del denaro di provenienza illecita nei circuiti economici attraverso l'immissione nelle strutture dell'economia legale dei capitali previamente ripuliti. L'obiettivo evidente, sotteso all'introduzione della nuova fattispecie, era, quindi, quello di tutelare la fase successiva rispetto a quella relativa all'area d'intervento prevista dalla ricettazione e dal riciclaggio. La disposizione in esame era, infatti, tesa ad evitare il successivo impiego del denaro ripulito in legittimi investimenti. In sostanza si preoccupava di colpire tutte quelle operazioni insidiose in cui il denaro di provenienza illecita, immesso nel circuito lecito degli scambi commerciali, tende a far perdere le proprie tracce, camuffandosi nel tessuto economico-imprenditoriale. 2.5. Il legislatore, nell'introdurre la nuova fattispecie, l'ha dunque disegnata in forma residuale rispetto ai delitti di ricettazione e di riciclaggio, come si desume dalla doppia clausola nell'incipit della disposizione («Fuori dei casi di concorso nel reato e dei casi previsti dagli articoli 648 e 648-6/s») che circoscrive in maniera significativa il suo ambito di applicazione. Con tale norma, secondo una parte della dottrina, il legislatore ha inteso rendere possibile la responsabilità per la condotta anche quando non è dato provare che l'agente che impiega il bene proveniente da delitto sia consapevole di tale provenienza al momento in cui l'ha ricevuto, mentre vi sia la prova di tale consapevolezza (comunque necessaria) in un altro e successivo momento. Altri Autori hanno osservato che la previsione realizza, nel sistema di tutela dell'ordinamento dalla creazione di patrimoni illeciti, una particolare forma di progressione criminosa, composta secondo un'ideale scala crescente di disvalore. Tali rilievi, uniti all'analisi del testo della norma, nel quale è assente la locuzione «in modo da ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa» (presente, invece, nell'art. 648-bis, cod. pen.) e l'abbandono di una prospettiva "accessoria" rispetto ai reati presupposto, hanno fatto propendere per la natura plurioffensiva della fattispecie che, pur se collocata tra i delitti contro il patrimonio, appare maggiormente orientata alla tutela dalle aggressioni al mercato e all'ordine economico e ad evitare l'inquinamento delle operazioni economico-finanziarie (Sez. 2, n. 4800 del 11/11/2009, Aschieri, Rv. 246276). 3. Le tappe significative di questa articolata elaborazione normativa possono essere colte mediante l'analisi diacronica della giurisprudenza. Inizialmente, le modifiche introdotte dal d.l. n. 59 del 1978 venivano valorizzate soprattutto nella loro valenza dissuasiva alla realizzazione di vantaggi patrimoniali grazie alla commissione dei reati-presupposto e nella loro finalità di contrasto degli stessi (Sez. 2, n. 2347 del 30/06/1980, Vilasi, Rv. 145758; Sez. 2, n. 11011 del 19/09/1988, Agresta, Rv. 179703). A seguito delle modifiche apportate nel 1990 e nel 1993, gli artt. 648-ò/s e 648-ter cod. pen. venivano letti come una forma di "particolare ricettazione", atteso che il riciclaggio presuppone il più delle volte l'acquisto o la ricezione dei beni di provenienza delittuosa e che l'impiego degli stessi in attività economiche o finanziarie ne presuppone il riciclaggio o rappresenta esso stesso una forma di riciclaggio (Sez. 6, n. 3390 del 14/07/1994, Masito, Rv. 201066). Al contempo veniva sottolineata l'irrisolta dicotomia sottesa agli interventi del legislatore, tesi, per un verso, ad incidere sui proventi dei reati presupposto impedendone la realizzazione e, per altro verso, a scongiurare qualsiasi forma di contaminazione tra economia legale e ricchezza illecite. La complessità della vicenda normativa, che ha condotto ad una moltiplicazione dei tipi codicistici, si è riflessa inevitabilmente nella ricostruzione dell'oggetto giuridico del reato, indubbiamente caratterizzato da una polivalenza di scopi politico-criminali. Si è, infatti, correttamente osservato che le condotte di riciclaggio non offendono solo l'ambito patrimoniale, ma incidono sull'interesse all'accertamento dei fatti - rendendo più difficile la ricostruzione della provenienza illecita dei beni riciclati - e sull'ordine economico (Sez. 2, n. 25773 del 12/06/2008, Fiore, Rv. 241444), atteso che la ricollocazione d'ingenti ricchezze sui mercati finanziari di ricchezze illecite rappresenta un meccanismo d'inquinamento dell'economia, del mercato, della libera concorrenza, della stabilità ed affidabilità degli intermediari finanziari (come desumibile anche dal d. Igs. 21 novembre 2007, n. 231, attuativo della direttiva 2005/60/CE, concernente la prevenzione dell'utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo, nonché della direttiva 2006/70/CE, che ne reca misure di esecuzione), arrivando a compromettere l'uguaglianza nei rapporti economici e la libertà d'iniziativa economica (artt. 3 e 41 Cost.). La plurioffensività dei delitti disciplinati dagli artt. 648-bis e 648-ter cod. pen. costituisce uno dei profili che giustificano l'affermazione che il delitto di riciclaggio è speciale rispetto alla ricettazione (cfr. ex piurìmis Sez. 2, n. 43730 del 12/12/2010, Gizzi, Rv. 248976; Sez. 2, n. 32901 del 09/05/2007, Batacchi, Rv. 237488; Sez. 2, n. 199707 del 19/02/2009, Abruzzese, Rv. 244879), ferma restando la loro reciproca distinzione anche per l'elemento materiale e per quello soggettivo (Sez. 2, n. 25940 del 12/02/2013, Bonnici, Rv. 256454; Sez. 2, n. 35828 del 09/05/2012, Acciaio, Rv. 253890; Sez. 2, n. 47088 del 14/10/2003, Di Capua, Rv. 227731; Sez. 2, n. 13448 del 23/02/2005, De Luca, Rv. 231053), e che analogo rapporto di specialità esiste tra il delitto di riciclaggio e quello di reimpiego (Sez. 2, n. 18103 del 10/01/2003, Sirani, Rv. 224394; Sez. 2, n. 29912 del 17/05/2007, Porzio, Rv. 237262; Sez. 4, n. 6534 del 23/03/2000, Aschìeri, Rv. 216733). Il complesso degli interventi legislativi in precedenza ricordati e l'esame della giurisprudenza conseguentemente formatasi mette in luce una progressiva e sempre più accentuata autonomia dei reati dì riciclaggio e di reimpiego rispetto al reato presupposto, una loro chiara emancipazione rispetto ad ipotesi di partecipazione post delictum al reato precedentemente commesso, un loro netto affrancamento concettuale e strutturale dalla categoria della complicità criminosa. 4. Tanto premesso, si tratta di cogliere il nesso esistente tra le connotazioni assunte dai delitti di riciclaggio e reimpiego (quali desumibili dagli interventi legislativi in precedenza illustrati) e la clausola, contenuta nell'incipit delle due disposizioni, che prevedono entrambe l'impunità per tali reati nei confronti di colui che abbia commesso o concorso a commettere il delitto presupposto. Le due ipotesi di delitto esordiscono facendo salvi i casi di concorso di persone nel reato, con la conseguenza che il riciclaggio e l'impiego di denaro, beni o utilità, posti in essere dai partecipi dei delitti dai quale essi provengono non determinano l'attribuzione di una responsabilità ulteriore rispetto a quella che deriva dall'art. 110 cod. pen. Il significato di tale clausola («fuori dei casi di concorso nel reato) è stato variamente interpretato. In giurisprudenza si è affermato che essa esprime un rapporto di sussidiarietà espressa, funzionale a delineare un concorso apparente di norme in luogo di un concorso di reati (Sez. 2, n. 47375 del 06/11/2009, Di Silvio, Rv. 246433 e 246434). Tale tesi è stata oggetto di alcuni rilievi critici. Innanzitutto si è osservato che la sussidiarietà presuppone norme incriminatrici che convergono su un medesimo "fatto" e che dunque, non può sussistere un rapporto di sussidiarietà tra riciclaggio e delitto presupposto che si qualificano per condotte fra loro profondamente diverse. Si è, inoltre, argomentato che la sussidiarietà richiede o diversi gradi di offesa ad un medesimo bene o, comunque, la convergenza nella delineazione di un complessivo assetto di tutela in relazione a determinati interessi. Sotto questo profilo, l'analisi comparativa tra la pluralità dei reati- presupposto e i delitti di riciclaggio e reimpiego evidenzia l'insussistenza di un rapporto di gradualità o di complementarietà, avuto riguardo alla significativa divergenza dell'offensività dei fatti e alla eterogeneità dei rispettivi oggetti giuridici. La stessa diversità del trattamento sanzionatorio è stata valorizzata quale argomento di conferma del fatto che la sussidiarietà è una categoria inidonea a qualificare i rapporti tra reato presupposto, riciclaggio, reimpiego, considerato che, spesso, queste ultime due fattispecie sono punite più severamente del primo. Una parte della dottrina evoca il principio del ne bis in idem sostanziale quale linfa del criterio dell'assorbimento (o consunzione), osservando che punire a titolo di riciclaggio l'autore del reato presupposto comporterebbe una doppia punizione per un medesimo fatto, unitariamente voluto dal punto di vista normativo Tale richiamo - secondo altri Autori - non tiene conto dell'insegnamento delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 25887 del 26/03/2003, Giordano, Rv. 224605- 08). Le norme del cui "assorbimento" si discute devono, infatti, perseguire scopi per loro natura omogenei, pur escludendosi che l'omogeneità si traduca in identità del bene giuridico. Lo scopo perseguito dalla norma che prevede il reato meno grave è assorbito da quello concernente il reato più grave. La punizione del reato antecedente esaurisce il disvalore complessivo e la condotta successiva rappresenta un normale sviluppo di quella antecedente, attraverso la quale il soggetto realizza l'utile perseguito con il primo reato o se ne assicura il frutto. E' soltanto in questi limiti che, in ossequio al principio di proporzione tra fatto e pena che ispira l'ordinamento penale, non è ammessa una duplicazione di tutela e di sanzione. L'eterogeneità dei beni giuridici tutelati rispettivamente dal delitto presupposto e da quelli di riciclaggio e reimpiego impedisce di ritenere che la punizione per il reato presupposto possa "assorbire" il disvalore dei reati previsti dagli artt. 648-ò/s e 648-ter cod. pen. Al riguardo è stata sottolineata la circostanza che talora i delitti di riciclaggio o di reimpiego sono assistiti da una sanzione penale più elevata rispetto a quella prevista per il reato presupposto. Infine, una parte della giurisprudenza (Sez. 5, n. 8432 del 10/01/2007, Gualtieri, Rv.236254) e della dottrina ricollegano la clausola presente nell'incipit degli artt. 648-bis e 648-ter cod. pen. al post factum non punibile, osservando che il disvalore della condotta susseguente è già incluso in quella precedente che integra il reato più grave e che le operazioni d'investimento dei proventi dei delitti costituiscono il normale sbocco della precedente attività criminale. Pertanto, essendo tali condotte strettamente funzionali agli illeciti principali, sarebbe l'antefatto delittuoso a risolvere "sostanzialmente" il contenuto offensivo della condotta consequenziale. Tale criterio è considerato inappagante da una parte delle dottrina, tenuto conto dell'eterogeneità dei delitti presupposto e del corredo di sanzioni potenzialmente più gravi per le attività post-delictum rispetto a quelle previste per il reato base all'esito delle modifiche normative in precedenza ricordate. In altra prospettiva si è osservato che l'esclusione della sanzione penale nei confronti di colui che ricicla o reimpiega i proventi derivanti da un delitto da lui stesso in precedenza commesso costituisce una causa soggettiva di esclusione della punibilità alla cui stregua il legislatore, pur riconoscendo il disvalore penale del fatto, rinuncia ad irrogare per esso la pena. La ratio di questa scelta viene individuata nell'esigenza di evitare cause pressoché automatiche di aggravamento della responsabilità, indipendenti dal disvalore rinvenibile nel riciclaggio o nel reimpiego del bene e degli effetti ad esso ricollegabili, nell'irragionevolezza di un'indiscriminata risposta sanzionatoria a fronte di un'ampia varietà delle singole situazioni concrete e della differente pericolosità del loro concreto atteggiarsi, nonché nella volontà di scongiurare meccanismi presuntivi nella ricostruzione del fatto tipico e delle responsabilità per il reato presupposto. Indipendentemente dalla ricostruzione dogmatica della clausola, il Collegio tuttavia ritiene che la previsione che esclude l'applicabilità dei delitti di riciclaggio e reimpiego di capitali nei confronti di chi abbia commesso o concorso a commettere il delitto presupposto costituisce una deroga al concorso di reati che trova la sua ragione dì essere nella valutazione, tipizzata dal legislatore, di ritenere l'intero disvalore dei fatti ricompreso nella punibilità del solo delitto presupposto. 5. Così ricostruito l'intervento normativo, occorre anzitutto verificare se il delitto di associazione di tipo mafioso possa costituire di per sé una fonte di ricchezza illecita suscettibile di riciclaggio o di reimpiego, indipendentemente dalla commissione di singoli reati-fine. 5.1. Il Collegio, condividendo l'orientamento giurisprudenziale maggioritario, ritiene che il delitto di associazione di tipo mafioso sia autonomamente idoneo a generare ricchezza illecita, a prescindere dalla realizzazione di specifici delitti, rientrando tra gli scopi dell'associazione anche quello di trarre vantaggi o profitti da attività lecite per mezzo del metodo mafioso (Sezione 6, n. 45643 del 30/10/2009, Papale, n.m.; Sez. 1, n. 6930 del 27/11/008, Ceccherini, Rv. 243223; Sez. 1, n. 2451 del 27/11/2008, Franchetti, Rv. 242723; Sez. 1, n. 1439 del 27/11/2008, Benedetti, Rv. 242665; Sez. 1, n. 1024 del 27/11/2008, Di Cosimo, Rv. 242512; Sez. 1, n. 6931 del 27/11/2008, Diana, n.m.). Depongono in tal senso plurimi elementi interpretativi. Su un piano letterale devono essere valorizzati la rubrica e il dato testuale dell'art. 416-BIS cod. pen. La significativa diversità tra la rubrica dell'art. 416 cod. pen. («Associazione per delinquere») e quella dell'art. 416-bis cod. pen. («Associazioni di tipo mafioso anche straniere») rispecchia la differenza ontologica delle due fattispecie, l'una preordinata esclusivamente alla commissione di reati, l'altra contraddistinta da una maggiore articolazione del disegno criminoso. L'associazione di tipo mafioso viene qualificata come tale in ragione dei mezzi usati e dei fini perseguiti. Il terzo comma dell'art. 416-bis cod. pen. individua il "metodo mafioso" mediante la fissazione di tre parametri caratterizzanti - forza intimidatrice del vincolo associativo, condizione di assoggettamento e condizione di omertà - da considerare tutti e tre come elementi necessari ed essenziali, perché possa configurarsi questo reato associativo, come del resto si desume senza possibilità di dubbio dall'uso della congiunzione "e" impiegata nel testo normativo. Il ricorso specifico, da parte di ciascun membro del gruppo, all'intimidazione, all'assoggettamento e all'omertà non costituisce una modalità di realizzazione della condotta tipica - la quale si esaurisce nel fatto in sé di associarsi, ovvero di promuovere, dirigere, organizzare un'associazione di questo tipo, apportando un certo contributo all'esistenza dell'ente - ma costituisce l'elemento strumentale tipico di cui gli associati si avvalgono in vista della realizzazione degli scopi propri dell'associazione. La tipicità del modello associativo delineato dall'art.416-bis cod. pen. risiede, quindi, nella modalità attraverso cui l'associazione si manifesta concretamente (modalità che si esprimono nel concetto di "metodo mafioso"). La maggiore ampiezza degli scopi perseguiti dal sodalizio di stampo mafioso, delineati nel terzo comma dell'art. 416-bis cod. pen. in modo alternativo, esprime, traducendole nello schema della fattispecie penale, le più recenti dinamiche delle organizzazioni mafiose, che cercano il loro arricchimento non solo mediante la commissione di azioni criminose, ma anche in altri modi, quali il reimpiego in attività economico-produttive dei proventi derivanti dalla pregressa perpetrazione di reati, il controllo delle attività economiche attuato mediante il ricorso alla metodologia mafiosa, la realizzazione di profitti o vantaggi non tutelati in alcun modo, né direttamente né indirettamente, dall'ordinamento e conseguiti avvalendosi della particolare forza d'intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne derivano. Particolarmente significativo appare, altresì, il settimo comma dell'art. 416- bis cod. pen. che, nel prevedere la confisca obbligatoria, nei confronti del condannato per tale reato, delle cose costituenti il prezzo, il prodotto, il profitto del reato o l'impiego dei predetti proventi, presuppone che l'associazione in quanto tale sia produttiva di ricchezze illecite. Qualora, invece, si ritenesse che il presupposto dei delitti di riciclaggio o di reimpiego possa essere rappresentato unicamente dai profitti acquisiti grazie alla commissione dei singoli reati-fine, e non negli altri casi, si giungerebbe a conseguenze prive di qualsiasi intrinseca razionalità e coerenza: sarebbe, infatti, obbligatoria, ai sensi dell'art. 416-bis, settimo comma, cod. pen., soltanto la confisca dei profitti conseguiti grazie alle attività - diverse da quelle consistenti nella commissione dei singoli delitti - gestite con metodologia mafiosa dall'associazione; al contrario, sarebbe meramente facoltativa, ai sensi dell'art. 240 cod. pen., la confisca dei profitti derivanti dalla realizzazione dei reati-fine. 5.2. Il richiamo contenuto nell'ordinanza di rimessione ad alcuni precedenti apparentemente difformi di questa Corte su tale specifica questione (Sez. 2, n. 44138 del 08/11/2007, Rappa, Rv. 238311; Sez. 2, n. 40793 del 23/07/2003, Carciati, Rv. 232524; Sez. 2, n. 10582 del 14/02/2003, Bertolotti, Rv. 223689) appare, per un verso, non pertinente e, sotto altro aspetto, riduttivo. Una di tali pronunce (Sez. 2, n. 44138 del 2007, Rappa) riguarda, infatti, una fattispecie concreta diversa da quella oggetto del presente giudizio e, in particolare, un caso in cui la ricchezza oggetto del riciclaggio proveniva dai reati¬fine e non dal reato di associazione mafiosa in quanto tale. Le altre due decisioni si pronunziano, invece, in senso negativo, sull'esistenza del rapporto di presupposizione tra il delitto di riciclaggio e quello di cui all'art. 416 cod. pen. e, così, negano l'operatività della clausola di riserva nei confronti del partecipe dell'associazione per delinquere chiamato a rispondere anche dell'imputazione di riciclaggio dei beni acquisiti attraverso la realizzazione dei reati-fine dell'associazione. In coerenza con tale impostazione, affermano che la partecipazione all'associazione di cui all'art. 416 cod. pen. non è autonomamente produttiva di proventi illeciti che possano essere oggetto del delitto di riciclaggio e che, pertanto, esiste un'impossibilità ontologica a far derivare i beni oggetto del delitto previsto dall'art. 648-bis cod. pen. dalla condotta associativa. E', quindi, evidente che il contrasto giurisprudenziale non verte tanto sulla capacità dell'associazione mafiosa in quanto tale di generare autonomamente ricchezza illecita, anche a prescindere dalla realizzazione di singoli reati-scopo, quanto piuttosto sulle conseguenze logico-giuridiche derivanti da tale affermazione. 5.3. Alla stregua delle argomentazioni sinora svolte deve, quindi, affermarsi il seguente principio di diritto: "Il delitto presupposto dei reati di riciclaggio (art. 648-bis cod. pen.) e di reimpiego di capitali (art. 648-ter cod. pen.) può essere costituito dal delitto di associazione mafiosa, di per sé idoneo a produrre proventi illeciti". 6. Le opzioni ermeneutiche elaborate dalla giurisprudenza di legittimità in relazione al possibile ruolo di reato presupposto del reato associativo ex art. 416-bis cod. pen. rappresentano l'antecedente logico della questione riguardante l'applicabilità della clausola di riserva al concorrente nell'associazione o al partecipe. Al riguardo è dato registrare un contrasto interpretativo che forma l'oggetto della questione rimessa alle Sezioni Unite. 6.1. Al primo indirizzo - ritenuto prevalente nell'ordinanza di rimessione, ma in realtà non qualificabile come tale, ove si abbia riguardo all'effettivo contenuto delle singole decisioni - vengono ascritte decisioni contraddistinte da significative diversità e, in quanto tali, non suscettibili di essere accomunate. Una prima pronunzia (Sez. 1, n. 40354 del 27/05/2011, Calabrese, Rv. 251166), dopo avere argomentato che l'associazione di stampo mafioso rientra nel novero dei reati-presupposto in ragione della sua capacità di costituire di per sé fonte di ricchezza illecita, esclude l'applicabilità della clausola di riserva («Fuori dei casi di concorso nel reato») sia nel caso in cui i proventi delittuosi siano riconducibili all'associazione mafiosa in quanto tale sia nel caso in cui essi derivino dai soli reati-fine. Tale conclusione viene giustificata in duplice modo: a) richiamando l'assenza di presupposizione tra il delitto di riciclaggio e quello di associazione per delinquere ex art. 416 cod. pen., a sua volta basata sul fatto che l'associazione per delinquere non è di per sé produttiva di proventi illeciti, ove non vengano commessi i singoli reati-fine; b) evocando l'indirizzo esegetico (Sez. 1, n. 6930 del 27/11/2008, Ceccherini, cit.; Sez. 1, n. 1439 del 27/11/2008, Benedetti, cit.) secondo il quale l'associazione di stampo mafioso è riconducibile alla categoria dei reati-presupposto del delitto di riciclaggio, indirizzo che, però, non si era pronunziato sulla non punibilità dell'autoriciclaggio. Una seconda decisione, riprendendo le osservazioni sviluppate dalla sentenza sopra menzionata (Sez. 1, n. 40354 del 27/5/2011, Calabrese, cit.), si esprime, invece, soltanto, escludendolo, sull'ammissibilità del concorso tra associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti (art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990) e riciclaggio (art. 648-bis cod. pen.). Muovendo dal presupposto che l'associazione di cui all'art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990 in quanto tale non è di per sé produttiva di ricchezza illecita, ha negato l'operatività della clausola di riserva nei confronti dell'imputato che non aveva concorso nella realizzazione dei singoli reati-scopo previsti dall'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990), bensì soltanto nel delitto associativo (Sez. 2, n. 27292 del 04/06/20013, Aquila, Rv. 255712). Sulla base delle considerazioni sinora svolte é, quindi, evidente che le decisioni ricondotte al primo dei due indirizzi giurisprudenziali ritenuti espressione del contrasto non hanno, in realtà, affrontato la specifica questione sottoposta all'esame del Collegio. 6.2. Altre pronunzie hanno, invece, esaminato specificamente il tema del possibile concorso tra il delitto di cui all'art. 416-bis cod. pen. e quello di reimpiego. Una prima sentenza (Sez. 6, n. 25633 del 24/05/2012, Schiavone, Rv. 253010) ha ritenuto non configurabile il reato previsto dall'art. 648-ter cod. pen., quando la contestazione di reimpiego riguardi denaro, beni o utilità la cui provenienza illecita trovi la sua fonte nell'attività costitutiva dell'associazione per delinquere di stampo mafioso ed è rivolta ad un associato cui quell'attività sia concretamente attribuibile. In proposito argomenta che, ove si ritenga che il delitto associativo di tipo mafioso sia da considerare per sé potenzialmente idoneo a costituire il reato presupposto dei delitti di riciclaggio e di illecito reimpiego, «non sono ravvisabili ragioni ermeneutiche che consentano, già in linea di principio, di escludere l'operatività della cd. clausola di riserva - "fuori dei casi di concorso nel reato" - anche per esso». A conclusioni analoghe è pervenuta un'altra sentenza (Sez. 5, n. 17694 del 14/01/2010, Errico, non massimata), che - sia pure incidentalmente - ha ammesso che il reato di associazione di tipo mafioso può costituire reato presupposto del delitto di riciclaggio e ha affermato che nei confronti del soggetto cui siano stati contestati sia il delitto di cui all'art. 416-bis cod. pen. che quello di riciclaggio opera la clausola di riserva. Tale orientamento è confermato da un'altra decisione di questa Corte (Sez. 2, n. 9226 del 23/01/2013, Del Buono, Rv. 255245) che ha affermato la non punibilità a titolo di riciclaggio del soggetto responsabile del reato presupposto che abbia in qualunque modo sostituito o trasferito il provento di esso, anche nel caso in cui abbia fatto ricorso ad un terzo inconsapevole, traendolo in inganno. 6.3. Il Collegio ritiene che le due sentenze ricondotte al primo orientamento (cfr. paragrafo 6.1.) fanno impropriamente interagire, confondendo la loro valenza, principi attinenti ad aspetti tra loro profondamente diversi e che operano su piani distinti: a) l'attitudine dell'associazione di stampo mafioso in quanto tale a produrre proventi illeciti; b) la possibilità di ricomprendere tra i delitti presupposto di riciclaggio anche l'associazione di stampo mafioso; c) il significato della clausola di riserva contenuta nell'art. 648-bis cod. pen.; d) la configurabilità del delitto di riciclaggio nei confronti del concorrente nel delitto associativo presupposto (l'associato di rango primario o secondario, nonché il concorrente esterno). Esse giungono ad affermare che il concorrente nel delitto associativo di stampo mafioso può essere chiamato a rispondere anche di quello di riciclaggio dei beni provenienti dall'attività associativa sia quando il delitto presupposto sia da individuare nei delitti-fine attuati in esecuzione del programma criminoso dell'associazione mafiosa sia quando esso sia costituito dallo stesso reato associativo di cui all'art. 416-bis cod. pen., di per sé idoneo a produrre proventi illeciti, richiamando impropriamente, a sostegno della inoperatività della esclusione della punibilità, i principi espressi da altre due decisioni (Sez. 1, n. 6930 del 27/11/2008, Ceccherini, cit.; Sez. 1, n. 1439 del 27/11/2008, Benedetti, cit.) che non avevano affrontato tale problematica, ma si erano limitate ad analizzare (fornendo ad essa risposta affermativa) un'altra questione: se il delitto di associazione di stampo mafioso possa costituire o meno il presupposto di quello di riciclaggio, in quanto di per sé idoneo a produrre proventi illeciti. La corretta analisi della questione implica, invece, la netta individuazione dei successivi passaggi logici che essa comporta. Una volta riconosciuta la capacità dell'associazione mafiosa in quanto tale di produrre ricchezze illecite e ammessa la possibilità che il delitto previsto dall'art. 416-bis cod. pen. possa rientrare nella categoria dei reati-presupposto della fattispecie di riciclaggio, si tratta di ricostruire l'esatto significato e ambito applicativo della clausola presente nel l'incipit degli artt. 648-bis e 648-ter cod. pen. («fuori dei casi di concorso nel reato»), di verificare le condizioni e i limiti del concorso nel reato presupposto, di chiarire i rapporti tra clausola di riserva contenuta negli artt. 648-bis e 648-ter cod. pen. e i reati associativi. 7. Gli artt. 648-bis e 648-ter cod. pen. stabiliscono che fra i soggetti agenti non é ricompreso colui che abbia concorso nel reato presupposto. La valenza di tale previsione è anch'essa controversa sia in giurisprudenza che in dottrina. 7.1. Un primo indirizzo interpretativo valorizza il c.d. criterio temporale che ha riguardo al momento in cui è intervenuto l'accordo tra l'autore del reato presupposto e il soggetto deputato al riciclaggio o al reimpiego. Argomenta, pertanto, che la promessa di assistenza o di aiuto nelle successive attività di riciclaggio o di illecito reimpiego, prestata prima o durante l'esecuzione del delitto presupposto e idonea a suscitare o a rafforzare nel suo autore il proposito criminoso, esclude la punibilità autonoma per i delitti previsti dagli artt. 648-bis e 648-ter cod. pen. Se, invece, l'accordo interviene successivamente, si configurano, a seconda dei casi e in presenza dei relativi presupposti, i delitti di riciclaggio o di reimpiego, in quanto l'accordo non ha esercitato alcuna influenza causale sulla realizzazione del reato presupposto. 7.2. Secondo un diverso orientamento, questo criterio non è appagante, in quanto eccessivamente schematico e non pienamente rispondente ai principi generali del diritto penale in tema di concorso di persone nel reato. In ossequio al criterio della determinazione causale si sottolinea, pertanto, che occorre stabilire se l'accordo intervenuto anteriormente abbia fornito un contributo effettivo alla realizzazione del reato presupposto. Sotto altro profilo si evidenzia che il riciclaggio (o il reimpiego) non può considerarsi come un mezzo necessario per la realizzazione del fine perseguito dall'autore del delitto presupposto. Sulla base di queste premesse si argomenta che ogni contributo causale che abbia determinato, sotto il profilo materiale o psicologico, la commissione del reato presupposto integra l'ipotesi del concorso nello stesso. Qualora l'accordo, pur se intervenuto antecedentemente alla commissione del reato presupposto, non abbia esercitato su di esso alcuna efficacia, non si configurano gli elementi costitutivi del concorso nel medesimo. Tale impostazione è recepita da quella parte della giurisprudenza che, in tema di riciclaggio di denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto, afferma che il criterio per distinguere la responsabilità in ordine a tale titolo di reato dalla responsabilità per il concorso nel reato presupposto (che escluderebbe la prima in virtù della clausola di riserva) non può essere unicamente quello temporale, ma occorre verificare, caso per caso, se la preventiva assicurazione di "lavare" il denaro o di reimpiegarlo abbia realmente (o meno) influenzato o rafforzato, nell'autore del reato principale, la decisione di delinquere (Sez. 5, In. 8432 del 10/01/2007, Gualtieri, Rv. 236254). E', infine, non controverso che la condotta descritta nell'art. 648-bis cod. pen. può essere sussunta in una fattispecie di concorso nel reato presupposto solo in presenza del necessario requisito psicologico: il soggetto deve rappresentarsi gli effetti della propria condotta sulla realizzazione del c.d. reato principale e deve volerli come consapevole contributo alla realizzazione dello stesso. La dimensione probatoria, indubbiamente in parte evocata da questo indirizzo interpretativo, non pare configurarsi - come pure prospettato da un'autorevole dottrina - come una "contaminazione" delle categorie penalistiche, ma esprime piuttosto lo sforzo di una corretta traduzione, anche nei canoni di valutazione del fatto dei principi generali in tema di concorso di persone nel reato. 8. Le condizioni e i limiti della configurabilità del concorso fra il delitto associativo ex art. 416-bis cod. pen. e quelli di riciclaggio (art. 648-bis cod. pen.) e reimpiego (art. 648-ter cod. pen.) devono essere ricostruiti in base al fatto tipico nelle sue connotazioni oggettive e soggettive, alla provenienza dei beni oggetto delle attività di riciclaggio o reimpiego, ai principi in precedenza enunciati in tema di concorso nel reato presupposto. L'estraneità del soggetto che ripulisce o reimpiega il denaro, i beni o le altre utilità sia all'organizzazione mafiosa che ai delitti fine rende configurabile, nei suoi riguardi, in presenza dei rispettivi elementi costitutivi, le contestazioni di riciclaggio o reimpiego, essendo da escludere qualsiasi suo apporto alla commissione dei reati presupposto. Il concorso del soggetto, non appartenente all'associazione mafiosa, nei soli reati-fine espressione dell'operatività della stessa, comporta la responsabilità in ordine agli stessi, aggravati ai sensi dell'art. 7 d.l. n. 152 del 1991, quando l'oggetto dell'attività di riciclaggio o di reimpiego sia costituito da denaro, beni o altre utilità conseguiti proprio grazie alla commissione dei suddetti reati. Qualora il soggetto non fornisca alcun apporto all'associazione mafiosa, ma si occupi esclusivamente di riciclare o reimpiegare il denaro, i beni, le altre utilità prodotti proprio dalla stessa, sono integrati i presupposti applicativi delle sole fattispecie previste, rispettivamente, dall'art. 648-bis cod. pen. o dall'art. 648-ter cod. pen., non sussistendo alcun contributo alla commissione del reato presupposto. Nei confronti del membro dell'associazione mafiosa che "ripulisca" o reimpieghi il denaro, i beni, o le altre utilità riconducibili ai soli delitti-scopo, alla cui realizzazione egli non abbia fornito alcun apporto, non opera la clausola di esclusione della responsabilità prevista dall'art. 648-bis cod. pen., in quanto l'oggetto dell'attività tipica del delitto di riciclaggio non è direttamente ricollegabile al reato cui egli concorre. Il partecipe del sodalizio di stampo mafioso che, nella ripartizione dei ruoli e delle funzioni all'interno dell'associazione, abbia il compito di riciclare o reimpiegare la ricchezza prodotta dall'organizzazione in quanto tale, non è punibile per autoriciclaggio, in quanto oggetto della sua condotta sono il denaro, i beni, le altre utilità provenienti dall'associazione cui egli fornisce il suo consapevole e volontario contributo. Infine, in adesione ai principi espressi dalle Sezioni Unite in tema di concorso esterno in associazione mafiosa (Sez. U, n. n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231670 e 231679), risponde del delitto previsto dagli artt. 110, 416-bis cod. pen. il soggetto che, pur se non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell'associazione di stampo mafioso e privo dell'affectio societatis, fornisca, mediante l'attività di riciclaggio o di reimpiego dei relativi proventi, un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo che esplichi un'effettiva rilevanza causale e si configuri, quindi, come condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell'associazione o, quanto meno, di un suo particolare settore e ramo di attività o articolazione territoriale, se si tratta di un sodalizio particolarmente articolato. In tale ipotesi, infatti, l'apporto di colui che pone in essere le condotte di riciclaggio o reimpiego caratterizzate, in base ad una valutazione ex post, da effettiva efficienza causale in relazione alla concreta realizzazione del fatto criminoso collettivo, costituisce un elemento essenziale e tipizzante della condotta concorsuale, di natura materiale o morale. Le argomentazioni sinora svolte consentono di affermare il seguente ulteriore principio di diritto: "Non è configurabile il concorso fra i delitti di cui gii artt. 648-bis o 648-ter cod. pen. e quello di cui all'art. 416-bis cod. pen., quando la contestazione di riciclaggio o reimpiego riguardi denaro, beni o utilità provenienti proprio dai delitto di associazione mafiosa". 9. Alla luce dei principi sinora illustrati, il primo motivo di ricorso merita accoglimento. 9.1. L’incipit dell'imputazione per il delitto di reimpiego ripropone la dizione normativa, escludendo il concorso nel delitto presupposto di cui all'art. 416-bis cod. pen.; l'ulteriore descrizione della condotta incriminata, quale desumibile dall'imputazione provvisoria, contiene, invece, l'espresso richiamo al ruolo di **** **** quale «esponente del clan dei casalesi». Analoghi riferimenti all'organico e stabile inserimento di **** **** nel sodalizio di stampo camorristico sono presenti rispettivamente a ff. 23 e 50 dell'ordinanza impugnata, contenenti l'esplicito riferimento all'attività di reimpiego degli investimenti provenienti dal sodalizio di stampo camorristico posta in essere dall'indagato nella sua qualità di esponente del suddetto clan. A ciò si aggiunga che - movendo all'evidenza dal medesimo erroneo presupposto che ispira la formulazione del capo d'imputazione, e cioè che non sarebbe in astratto da escludere la configurabilità del concorso fra i delitti di cui gli artt. 648-bis o 648-ter cod. pen. e quello di cui all'art. 416-bis cod. pen., quando la contestazione di riciclaggio o reimpiego riguardi denaro, beni o utilità provenienti proprio dal delitto di associazione mafiosa - il Tribunale del riesame trae conseguenze giuridicamente inaccettabili dalla circostanza che nei confronti di **** **** il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli aveva emesso, nell'ambito di un separato procedimento penale, ordinanza di custodia cautelare in carcere per il delitto di cui all'art. 416-bis cod. pen., arbitrariamente affermando che la clausola di riserva contenuta nell'art. 648-ter cod. pen. si applicherebbe soltanto a coloro che rivestono la qualità di capi, promotori, organizzatori all'interno del sodalizio di stampo mafioso, senza neppure considerare che in quel procedimento era stata contestata al ricorrente l'aggravante del sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen. (configurabile nei confronti dell'associato che abbia commesso il delitto che ha generato i proventi oggetto, da parte sua, di successivo reimpiego e che, come condivisibilmente affermato da un'autorevole dottrina, rappresenta una sorta di "progressione criminosa" rispetto al reato-base e denota la maggiore pericolosità di un'organizzazione che, mediante il conseguimento degli obiettivi prefissati, produce una più intensa lesione degli interessi protetti, influendo sul mercato finanziario e sulle regole della concorrenza mediante la penetrazione in settori di attività imprenditoriale lecita). 9.2. Il provvedimento impugnato non chiarisce, d'altra parte, se il denaro, i beni, le altre utilità, oggetto delle condotte qualificate ai sensi dell'art. 648-ter cod. pen., provengano o meno dall'attività dell'associazione di stampo camorristico in quanto tale. Omette, inoltre, una compiuta analisi delle condotte in concreto asseritamente realizzate da ****, indispensabile al fine di verificare la sussistenza degli elementi costitutivi dei due reati contestati, la loro corretta qualificazione giuridica tenuto conto anche della formulazione dell'incolpazione ex art. 416-6/s cod. pen. nell'ambito del separato procedimento penale, la configurabilità o meno del concorso dell'indagato (nel senso in precedenza chiarito) nel delitto presupposto del delitto di reimpiego. 9.3 L'erronea prospettiva di diritto e le lacune motivazionali sui profili evidenziati hanno inciso sulla correttezza e coerenza dell'iter argomentativo in ordine all'analisi degli artt. 416-bis e 648-ter cod. pen., ai rapporti tra le due fattispecie incriminatrici, alla valenza della clausola di riserva contenuta nell'art. 648-ter cod. pen., ai relativi presupposti applicativi, alla sussistenza del quadro di gravità indiziario. 10. L'annullamento dell'ordinanza impugnata per ovviare, nel rispetto dei principi sopra enunciati, agli errori e alle carenze motivazionali indicati al paragrafo che precede in ordine ai rapporti tra il delitto di associazione di stampo mafioso e quello di reimpiego, rende superfluo, atteso il suo carattere pregiudiziale ed assorbente, l'esame in questa sede della doglianza difensiva concernente la configurabilità dell'aggravante di cui all'art. 7 d.l. n. 152 del 1991, contestata sotto entrambi i profili in relazione al reato ex art. 12-quinquies d.l. n. 306 del 1992 e, invece, sotto il solo profilo della finalità di agevolazione del sodalizio mafioso con riguardo al delitto di reimpiego. 11. In sede di rinvio il Tribunale del riesame dovrà affrontare la questione dei rapporti intercorrenti tra il delitto di reimpiego (art. 648-ter cod. pen.) e quello di associazione di stampo mafioso anche alla luce della contestazione dell'aggravante di cui al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen., presente nell'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa il 28 novembre 2011 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli. 11.1. L'aggravante di cui all'art. 416-bis, sesto comma , cod. pen. ricorre quando gli associati cercano di penetrare in un determinato settore della vita economica e si pongono nelle condizioni di influire sul mercato finanziario e sulle regole della concorrenza, finanziando, in tutto o in parte, le attività con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti. L'aggravante in esame stabilisce una precisa correlazione logico-causale tra le diverse finalità indicate nel terzo comma dell'art. 416-bis cod. pen., colte nella loro proiezione dinamico-strutturale, essendo delineato un chiaro nesso funzionale tra la consumazione di delitti, la gestione di attività imprenditoriali, la realizzazione di vantaggi ingiusti, intesi o quale derivazione da attività economiche sanzionate come contravvenzione o quali aspetti complementari al controllo delle attività economiche. L'apporto di capitale deve corrispondere ad un reinvestimento delle utilità procurate dalle azioni delittuose. Il riferimento all'attività economiche è da intendere come intervento in strutture produttive dirette a prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre strutture che offrano beni e servizi. La ratio di tale previsione è da ravvisare nella necessità di introdurre uno strumento normativo in grado di colpire più efficacemente l'inserimento delle associazioni mafiose nei circuiti dell'economia legale grazie alla maggiore liquidità derivante da delitti, costituenti una sostanziale progressione criminosa rispetto al reato-base, così concretizzando una più articolata e incisiva offesa degli interessi protetti. Come si desume dal chiaro tenore letterale dell'art. 416-bis, sesto comma , cod. pen., ai fini della configurabilità dell'aggravante non è necessario che l'attività imprenditoriale mafiosa venga finanziata interamente con fondi provenienti da delitto: la norma stabilisce espressamente, infatti, che deve ritenersi configurata l'aggravante anche se il finanziamento è di tipo misto, ossia è alimentato, in parte, dagli utili della gestione formalmente lecita e, in parte, dai proventi delittuosi. L'interpretazione letterale del sesto comma, la sua lettura logico-sistematica nel contesto complessivo dell'art. 416-bis cod. pen. e la sua ragione giustificativa inducono a ritenere che la previsione normativa si applichi esclusivamente alle ipotesi di reimpiego in attività economiche e non in altre finalità programmatiche dell'associazione. Sotto questo profilo non appare, quindi, condivisibile quell'orientamento dottrinale che, valorizzando l'assenza di distinzione in ordine alla liceità formale delle attività finanziate, ritiene che la circostanza aggravante sussista anche quando il finanziamento di origine delittuosa interessi attività economiche di per sé penalmente illecite. La lettura coordinata dei commi terzo e sesto dell'art. 416-bis cod. pen., la chiara distinzione, presente nel terzo comma, tra "delitti" e "attività economiche", il riferimento specifico alla provenienza da "delitti" del prezzo, del prodotto o del profitto, destinate a finanziare, almeno in parte, le attività economiche, portano ad escludere l'applicabilità dell'aggravante di cui al sesto comma al caso in cui i componenti dell'associazione mafiosa reimpieghino in ulteriori attività economiche gli utili provenienti dalle attività imprenditoriali, costituenti l'espressione della seconda finalità descritta dal terzo comma (c.d. finalità di monopolio). 11.2. L'aggravante, che appartiene al novero di quelle speciali, ha natura oggettiva (art. 70 cod. pen.), poiché il perseguimento della finalità descritta nell'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen. mediante i proventi dei delitti, costituisce una connotazione obiettiva dell'associazione e ne qualifica la pericolosità al pari del suo carattere armato. In coerenza con tale natura dell'aggravante è da ritenere che essa vada riferita all'attività dell'associazione in quanto tale e non necessariamente alla condotta del singolo partecipe (Sez. 5, n. 12251 del 25/01/2012, Monti, Rv. 252172; Sez. 6, n. 6547 del 10/10/2011, Panzeca, Rv. 252114; Sez. 6, n. 42385 del 15/10/2009, Ganci, Rv. 244904; Sez. 6, n. 17249 del 26/01/2004, Rv. 228111; Sez. 2, n. 5343 del 28/01/2000, Oliveri, Rv. 215908). Ne consegue che, ai fini della sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 416- bis, sesto comma , cod. pen., non è necessario che il singolo associato s'interessi personalmente di finanziare, con i proventi dei delitti, le attività economiche, di cui i partecipi dell'associazione mafiosa intendano assumere o mantenere il controllo (Sez. 1, n. 4375 del 25/06/1996, Trupiano, Rv. 205497). La natura oggettiva della circostanza aggravante comporta, in applicazione di quanto stabilito dall’art. 59, secondo comma, cod. pen. (introdotto dalla legge del 7 febbraio 1990, n. 19), che essa sia valutabile a carico di tutti i componenti del sodalizio, sempre che essi siano stati a conoscenza dell'avvenuto reimpiego di profitti delittuosi, ovvero l'abbiano ignorato per colpa o per errore determinato da colpa Peraltro, qualora sia in concreto accertata la normalità e frequenza del reimpiego di profitti delittuosi da parte di un determinato sodalizio di tipo mafioso, ciascuno dei membri del sodalizio mafioso deve considerarsi al corrente della relativa circostanza e deve, di regola, ritenersi ascrivibile a colpa l'eventuale ignoranza sul punto da parte di taluno dei componenti. 11.3. La circostanza aggravante di cui all'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen. deve ritenersi applicabile anche al concorrente esterno consapevole dei fatti oggetto della medesima aggravante o che per colpa li ignori (Sez. 6, n. 42385 del 15/10/2009, Ganci, cit.). In assenza di qualsiasi specificazione normativa, i proventi destinati all'assunzione o al mantenimento del controllo delle attività economiche possono derivare anche da delitti commessi da terzi che li affidino successivamente all'associazione mafiosa senza partecipare alla gestione del relativo programma. Pertanto, se - come osservato da autorevole dottrina - l'associazione di stampo mafioso, fungendo da "impresa di riciclaggio" per conto di altre consimili organizzazioni, reimpiega i proventi conseguiti da queste ultime nelle proprie attività economiche formalmente lecite, la circostanza aggravante in esame viene, comunque, valutata a carico di tutti i membri del sodalizio mafioso nei termini e nei limiti indicati dagli artt. 70, primo comma, n. 1 e 59, secondo comma, cod. pen. Del delitto di reimpiego risponderanno, invece, i soli associati che abbiano direttamente svolto le attività di reimpiego. 11.4. L'aggravante prevista dall'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen. é configurabile nei confronti dell'associato che abbia commesso il delitto che ha generato i proventi oggetto, da parte sua, di successivo reimpiego. Una conclusione del genere si fonda sull'interpretazione letterale dell'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., in cui sono assenti forme di esclusione o limitazione della responsabilità per tale ipotesi, e sulla ratio giustificatrice della disposizione. Come condivisibilmente affermato da un'autorevole dottrina, essa rappresenta una sorta di "progressione criminosa" rispetto al reato-base e denota la maggiore pericolosità di un'organizzazione che, mediante il conseguimento degli obiettivi prefissati, produce una più intensa lesione degli interessi protetti, influendo sul mercato finanziario e sulle regole della concorrenza mediante la penetrazione in settori di attività imprenditoriale lecita. Il doveroso coordinamento sistematico tra l'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen. e l'art. 648-ter cod. pen. porta, al contrario, ad escludere che, in questo caso l'associato possa autonomamente rispondere anche del delitto di reimpiego, non consentendolo la clausola personale di esclusione della responsabilità contenuta nel reato disciplinato dall'art. 648-bis cod. pen. e avente valenza generale. La lettera dell'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen. osta, infine, a che l'associato possa essere chiamato a rispondere ad alcun titolo del post-fatto di autoriciclaggio. 11.5. All'esito delle argomentazioni sinora svolte deve, quindi, essere affermato il seguente principio di diritto: "L'aggravante prevista dall'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen. é configurabile nei confronti dall'associato che abbia commesso il delitto che ha generato i proventi oggetto, da parte sua, di successivo reimpiego". 12. La riscontrata carenza della motivazione circa i comportamenti effettivamente posti in essere da **** **** e circa il quadro di gravità indiziaria è ravvisabile anche con riferimento al contestato delitto di cui all'art. 12-quinquies d.l. n. 306 del 1992. 12.1. Tale reato costituisce una fattispecie a forma libera che si concretizza nell'attribuzione fittizia della titolarità o disponibilità di denaro o di qualsiasi altro bene o utilità, realizzata con modalità non predeterminate, al fine di eludere specifiche disposizioni di legge. La condotta vietata consiste nella creazione di una situazione di apparenza formale della titolarità di un bene, difforme dalla realtà sostanziale, e nel mantenimento consapevole e volontario di tale situazione. L'interpretazione letterale e logico-sistematica della norma rende evidente che il suo ambito di applicabilità non è limitato alle ipotesi riconducibili a precisi schemi civilistici, ma comprende tutte quelle situazioni in cui il soggetto viene a trovarsi in un rapporto di signoria con il bene, e, inoltre, che essa prescinde da un trasferimento in senso tecnico-giuridico, rimandando non a negozi giuridici tipicamente definiti ovvero a precise forme negoziali, ma piuttosto ad una indeterminata casistica, individuabile soltanto attraverso la comune caratteristica del mantenimento dell'effettivo potere sul bene attribuito in capo al soggetto che effettua l'attribuzione ovvero per conto o nell'interesse del quale l'attribuzione medesima viene compiuta. Lo spazio di illiceità delineato dalla norma in relazione a manovre di occultamento giuridico o di fatto di attività e beni, altrimenti lecite, si connota per il fine perseguito dall'agente, individuato alternativamente nell'elusione delle disposizioni in tema di misure di prevenzione patrimoniali ovvero nell'agevolazione nella commissione dei delitti di ricettazione, riciclaggio o reimpiego. Sotto tale profilo la disposizione in esame consente di perseguire penalmente anche questi fatti, per così dire, di "auto" ricettazione, riciclaggio, reimpiego, che non sarebbero altrimenti punibili per la clausola di riserva presente negli artt. 648-bis e 648-ter, che ne esclude l'applicabilità agli autori dei reati presupposti (Sez. 2, n. 39756 del 05/10/2011, Ciancimino, Rv. 251193). Di conseguenza, l'autore del delitto presupposto il quale attribuisca fittiziamente ad altri la titolarità o la disponibilità di beni o di altre utilità, di cui rimanga effettivamente dominus, al fine di agevolarne una successiva circolazione nel tessuto finanziario, economico e produttivo è punibile anche ai sensi dell'art. 12-quinquies d.l. n. 306 del 1992. A sua volta, colui che, mediante la formale titolarità o disponibilità dei beni o delle attività economiche, si presta volontariamente a creare una situazione apparente difforme dal reale, così contribuendo a ledere il generale principio di affidamento, risponde di concorso nel medesimo delitto, ove abbia la consapevolezza che colui che ha effettuato l'attribuzione è motivato dal perseguimento di uno degli scopo tipici indicati dalla norma (cfr. ex piurimis Sez. 1, n. 30165 del 26/04/2007, Di Cataldo, Rv. 237595; Sez. 1, n. 14626 del 10/02/2005, Pavanati, Rv. 231379; Sez. 2, n. 38733 del 09/07/2004, Casillo, Rv. 230109). Il disvalore della condotta è dato, poi, dalle finalità che costituiscono il profilo soggettivo (dolo specifico) della figura delittuosa, intesa ad eludere - come già sopra detto - le misure di prevenzione patrimoniale o di contrabbando ovvero ad agevolare la commissione di reati che reprimono fatti connessi alla circolazione di mezzi economici di illecita provenienza. 12.2. Conclusivamente è possibile affermare il seguente principio di diritto: "I fatti di "auto" riciclaggio e reimpiego sono punibili, sussistendone i relativi presupposti, ai sensi dell'art. 12-quinquies d.l. n. 306 del 1992. convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356". 12.3. Il Tribunale del riesame dovrà procedere ad una nuova valutazione delle concrete condotte asseritamente realizzate da **** **** alla luce dei principi in precedenza enunciati. 13. Il confronto strutturale tra il delitto di trasferimento di valori ex art. 12- quinquies d.l. n. 306 del 1992 e quelli di riciclaggio (art. 648-bis cod. pen.) e reimpiego (art. 648-ter cod. pen.) consente di affermare l'autonoma e distinta valenza strumentale del primo reato rispetto agli altri due (Sez. 6, n. 18496 del 09/11/2011, Figliomeni, Rv. 252658; Sez. 2, n. 39756 del 05/10/2011, Ciancimino, Rv. 251193). L'assenza, nell'art. 12-quinques d.l. n. 306 del 1992, di una clausola di esclusione della responsabilità per l’autore dei reati che hanno determinato la produzione di illeciti proventi consente di affermare che il soggetto attivo del reato può essere anche colui che ha commesso o ha concorso a realizzare il delitto presupposto, qualora abbia predisposto una situazione di apparenza giuridica e formale difforme dalla realtà circa la titolarità o disponibilità dei beni di provenienza delittuosa al fine di agevolare la commissione dei delitti di riciclaggio o di reimpiego (Sez. 2, n. 12999 del 16/11/2012, Bitica, Rv. 254804; Sez. 6, n. 25616 del 21/04/2008, Giombini, Rv. 240987; Sez. 6, n. 15104 del 09/10/2003, Gioci, Rv. 229239, tutte in materia di riciclaggio). 14. L'annullamento dell'ordinanza impugnata per procedere a nuovo esame dei profili in precedenza illustrati rende superfluo l'esame in questa sede delle censure difensive riguardanti la sussistenza delle esigenze cautelari. 15. Sulla base delle considerazioni sinora svolte, deve essere disposto l'annullamento dell'ordinanza impugnata e il rinvio per nuovo esame al Tribunale di Napoli. La Cancelleria dovrà provvedere all'adempimento prescritto dall'art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen. P.Q.M. Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Napoli. Dispone trasmettersi a cura della Cancelleria copia del provvedimento al Direttore dell'istituto penitenziario ai sensi deN'art. 94, comma 1 -ter, disp. att. cod. proc. pen. Così deciso il 27/02/2014