RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 19 novembre 1997 (n. 4621/98), relativa ai procedimenti riuniti (dopo stralcio formale) nn. 916/97 e 1437/97 R.G.A., la Corte di appello di Milano, in parziale riforma della sentenza emessa il 26 giugno 1996 dal Tribunale della stessa città, condannava Lucio Pislor, per i reati di falso e corruzione a lui contestati ai capi LI), MI), 5), 6), 7), 8), e 9), alla pena di anni due e mesi dieci di reclusione e, in solido con i coimputati, al pagamento delle spese processuali. Tale sentenza diveniva irrevocabile con la pronuncia di rigetto del ricorso del Pislor, emessa dalla Corte di cassazione il 17 giugno 1999. Nel 2009 interveniva a carico del Pislor l'iscrizione a ruolo (n. 2009/5351), resa esecutiva il 13 luglio 2009, di un debito per spese di giustizia pari a euro 109.972,32, con conseguente emissione nei suoi confronti, da parte dell'agente di riscossione Equitalia, di una cartella di pagamento di pari importo (n. 079 2009 00354143 14/009), riferita all'atto giurisdizionale del 19 novembre 1997 e indirizzata anche ad altri undici soggetti (Cavalli, Clemente, Cremonini, Ferrara, Giangregorio, Lampedecchia, Napelli, Molinari, Orio, Rapizza, Stepic), quali coobbligati in solido. Il 24 novembre 2009 il Pislor rivolgeva alla Corte di appello di Milano, sezione penale, quale giudice dell'esecuzione, istanza per la rideterminazione delle spese di giustizia poste a suo carico, sull'assunto della irriferibilità alla sua posizione dell'ammontare riportato in cartella, in ragione dei reati per i quali era stato condannato e delle fonti di prova indicate a suo carico (consistenti esclusivamente in accertamenti presso la Questura e il CED, dichiarazioni dei coimputati, confessione del Pislor). Con ordinanza de plano in data 8 febbraio 2010 la Corte di appello, Terza Sezione penale, su conforme parere del Procuratore generale, disponeva l'effettuazione, a cura della Cancelleria, Ufficio Riscossione Crediti, di una nuova quantificazione delle spese processuali da addebitare al Pislor, nel senso che tali spese andavano intese «come quelle attinenti ai reati di cui ai capi LI), MI), 5), 6)/ 7), 8), e 9)», per i quali egli aveva riportato condanna. Con nota datata 8 marzo 2010 il responsabile dell'Ufficio Riscossione e Crediti certificava che le spese oggetto della cartella esattoriale notificata a Pislor Luciano erano state determinate dall'ufficio Redazione Parcelle a sensi degli artt. 535 e 12 cod. proc. pen. ed erano dovute in solido per intercettazioni telefoniche ed altro come da prospetto in allegato, dal quale risultavano spese dovute in solido dal Pislor e altri ventidue soggetti (Buscaino, Cavalli, Clemente, Cremonini, Ferraro, Giangregorio, Lampedecchia, Lettieri, Mapelli, Molinari, Orio, Pedretti, Pengo, Rapizza, Rebuscini, Soldi, Spina, Stepic, Trevisan, Zonca) nell'ammontare di euro 109.972,32 per: intercettazioni telefoniche (euro 107.516,47); perizia infortunistica (euro 857,31); escussione testi (euro 1.598,54). Il suddetto provvedimento, unitamente al prospetto dell'ufficio Parcelle, veniva notificato al Pislor e al suo difensore nelle date del 22 e 23 marzo 2010. Il successivo 30 marzo il difensore del Pislor si rivolgeva nuovamente alla Corte di appello, quale giudice dell'esecuzione penale, insistendo per la rideterminazione dell'importo dovuto in relazione ai reati per i quali era intervenuta condanna. Con ordinanza resa in data 4 maggio 2010 la Corte di appello dichiarava non luogo a provvedere sulla richiesta, osservando che: - una volta determinato con l'ordinanza in data 8 febbraio 2010 l'ambito di Imputazione delle spese, nessuna competenza residuava in capo al giudice dell'esecuzione penale con riguardo alla specifica determinazione delle spese processuali, compito questo affidato alla Cancelleria del Giudice ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, artt. 208 e 209, e contestabile quanto alle singole voci di spesa, ai sensi del citato d.P.R., art. 226, non già innanzi al giudice dell'esecuzione penale, competente solo per le questioni attinenti alla sussistenza del titolo esecutivo, ma davanti al giudice civile con esperimento di eventuale opposizione all'esecuzione e agii atti esecutivi; - l'esclusione del vincolo di solidarietà, conseguente all'abrogazione dell'art. 535, comma 2, cod. proc. pen., recata dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, non poteva, in quanto statuizione di carattere processuale, trovare applicazione nel procedimento in esame, attinente a debito maturato in forza di sentenza anteriore a detta legge. 2. Avverso tale ordinanza proponeva ricorso a mezzo del difensore il Pislor, deducendo: - inosservanza o erronea applicazione della legge penale e di altre norme giuridiche; violazione dell'art. 535 cod. proc. pen., della legge n. 69 del 2009 e del T.U. in materia di spese di giustizia (vizio rilevabile ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen.); illogicità del provvedimento e sua contraddittorietà, ovvero contraddittorietà con l'ordinanza 8 febbraio 2010 resa nel medesimo procedimento (vizio rilevabile ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen.). Il ricorrente, premesso che la propria istanza di rideterminazione delle spese di giustizia costituiva incidente di esecuzione volto, in particolare, all'integrazione della sentenza di condanna nella parte dispositiva, e che a seguito dell'incidente di esecuzione inizialmente proposto, la Corte di appello aveva disposto che la Cancelleria effettuasse una nuova quantificazione delle spese, ma l'Ufficio Parcelle aveva riproposto la nota che individuava spese pari a euro 107.516,47 per intercettazioni telefoniche, euro 857,31 per perizia infortunistica stradale, euro 1.598,54 per escussione testimoni, assumeva che: - la declinatoria di competenza della Corte di appello, oltre a essere in contraddizione con l'ordinanza 8 febbraio 2010 e a non considerare che per il processo penale l'ufficio incaricato era comunque «quello presso il giudice dell'esecuzione», si basava su di un inconferente richiamo alle norme del T.U. n. 115 del 2002 relative alla fase esecutiva della riscossione del credito, laddove col sollevato incidente di esecuzione si era messa in discussione la sussistenza del titolo da eseguire ovvero la attribuibilità al condannato di spese richieste sine titulo-, - in effetti solo le spese per i testimoni potevano essere poste a carico del Pislor in quanto attinenti ai reati attribuitigli, mentre non potevano riguardarlo le altre spese del processo e, in particolare, quelle relative alle intercettazioni telefoniche, del tutto estranee alle sue imputazioni, e in tal senso sin dall'inizio si sarebbe dovuta pronunciare la Corte di appello, chiamata a integrare per incidente il dispositivo della sentenza nella parte rimasta originariamente indeterminata; - la legge n. 69 del 2009 aveva escluso la solidarietà tra i coimputati condannati, sostituendo ad essa il criterio dell'obbligazione soggettiva e propria e dell'accollo pro quota delle spese cumulative; la regola (prevista dall'art. 58) di applicabilità temporale di tale legge ai soli giudizi instaurati dopo la sua entrata in vigore valeva solo per le disposizioni modificatrici del codice di procedura civile. 3. La Prima Sezione penale, assegnataria del ricorso - dato atto che la Corte ambrosiana, nello stabilire che le doglianze sollevate dal Pislor andavano fatte valere con opposizione all'esecuzione innanzi al giudice civile e che l'esclusione del vincolo di solidarietà, conseguente all'abrogazione dell'art. 535, comma 2, cod. proc. pen., recata dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, non poteva avere applicazione retroattiva, si è attenuta a una consolidata giurisprudenza di legittimità - ha tuttavia, con ordinanza n. 25858 resa in data 12 aprile 2011, depositata il 30 giugno 2011, rimesso il ricorso alle Sezioni Unite penali, rilevando che: - può seriamente mettersi in dubbio la natura processuale della norma che ha escluso il vincolo di solidarietà nel pagamento delle spese processuali; - dubbi possono affacciarsi anche in ordine alla natura prettamente civilistica dell'obbligazione de qua, alla luce in particolare di alcune pronunce della Corte costituzionale (sent. n. 98 del 1998 e ord. n. 57 del 2001), con quanto ne consegue in tema di possibile retroattività dell'anzidetta esclusione del vincolo di solidarietà e di riparto di attribuzioni in materia fra giudice penale e giudice civile; - sotto tale ultimo profilo, oltre a sussistere, dietro l'uniforme affermazione di principi, concrete difformità applicative, si registra un rilevante contrasto fra le sezioni penali e civili della Corte di cassazione (anche nei loro massimi consessi) in ordine alla natura delle questioni concernenti il detto riparto, considerate dalle sezioni penali vere e proprie questioni di giurisdizione e ricondotte invece dalle sezioni civili a mere questioni di distribuzione interna degli affari. 4, In data 4 luglio 2011 il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali, fissando per la trattazione l'udienza camerale del giorno 29 settembre 2011. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. La questione per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite riguarda la «determinazione della forma - incidente di esecuzione in sede penale od opposizione all'esecuzione in sede civile - in cui debba essere proposta la domanda del condannato di accertamento dell'inesistenza dell'obbligazione di pagamento di determinate partite delle spese processuali, e le conseguenze di eventuali errori commessi in proposito dall'interessato». 2. Nella giurisprudenza di questa Corte è stato costantemente affermato il principio che, in materia di spese processuali, le questioni sottoponibili al giudice dell'esecuzione penale sono soltanto quelle che attengono alla esistenza o validità (in taluni casi si parla però anche di operatività, attualità e sufficienza) del titolo per l'esercizio dell'azione di recupero; mentre per quelle concernenti la determinazione dell'ammontare delle spese incluse nella notula redatta dall'ufficio del campione penale e ritenute non dovute, l'interessato deve contestare il diritto della parte istante a procedere davanti al giudice civile con le forme previste per l'opposizione all'esecuzione. Tale conclusione, già ancorata, nella vigenza del codice di rito del 1930, alla previsione dell'art. 613, che, attraverso il richiamo alle «forme stabilite dalle leggi e dai regolamenti», rendeva direttamente applicabili le norme in materia di tariffa penale, di cui al r.d. 23 dicembre 1865, n. 2701, e al r.d. 24 luglio 1931, n. 1071, alla cui stregua l'esecuzione aveva luogo secondo la disciplina prevista nel codice di procedura civile (v. per tutte, Sez. 2, ord. n. 2222 dell'11/11/1970, Betti, Rv. 115760), è stata, sotto il codice di rito vigente, formalmente ricondotta, in un primo tempo, alla identica previsione contenuta nell'art. 691, comma 2, alla cui luce è stata letta e delimitata la norma di cui all'art. 695, relativa alle questioni demandate al giudice dell'esecuzione penale (v. in tal senso Sez. 1, n. 1108 del 05/03/1991, Manti, Rv. 186931; Sez. 4, n. 121 del 31/02/1994, Carrisi, Rv. 197952; Sez. 4, n. 2751 del 13/11/1996, Pagliarani, Rv. 206323; Sez. 6, n. 21181 del 26/02/2002, Carotenuto, Rv. 222441; Sez. 1, n. 32304 del 03/07/2003, Sgrò, Rv. 225120; Sez. 2, n. 6559 del 09/12/2003, Ronchetti, Rv. 228556), e confermata, poi, dopo l'entrata in vigore del d.P.R. 30.5.2002, n. 115 (T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), che ha radicalmente riformato il procedimento per il recupero delle spese processuali, abrogando, fra l'altro, espressamente (art. 299) gli artt. 691 e 695 cod. proc. pen. Nell'ambito di tale nuova disciplina, da un lato, si è ritenuto che i limiti delle attribuzioni in materia del giudice dell'esecuzione penale, lungi dall'essere stati rimossi, sono stati ribaditi dall'abrogazione dell'art. 695 cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 19547 del 02/04/2004, Lunardon, Rv. 227983; Sez. 1, n. 15839 del 06/04/2006, Rovetta; Sez. 1, n. 30737 del 12/07/2007, Stara, Rv. 237356), e, dall'altro, si è osservato che all'interessato, oltre all'eventuale ricorso alla via dell'autotutela da parte della P.A. (ai sensi degli artt. 210 e 220 del d.P.R.), resta aperta la via ordinaria dell'opposizione in sede civile, in forza dell'art. 226, che richiama tra l'altro il d.lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, art. 29, recante "Garanzie giurisdizionali per entrate non devolute alle commissioni tributarie", in base al quale permangono esperibili i rimedi previsti dall'art. 615 cod. proc. civ. e ss. avverso cartelle esattoriali con cui si richieda il pagamento di entrate non tributarie (così Sez. 1, n. 16721 del 23/03/2007, Martinelli, Rv. 236436; sulla linea del persistente tradizionale riparto, v. Sez. 1, n. 44079 del 11/11/2008, Galiazzo, Rv. 241850; Sez. 1, n. 45773 del 02/12/2008, Stara, Rv. 242573; Sez. 1, n. 30589 del 07/04/2011, Colleoni). 3. L'ordinanza di rimessione, da un lato, segnala alcuni dissensi manifestatisi in giurisprudenza sul piano dell'applicazione concreta dei principi pur in astratto condivisi, e, dall'altro, rileva che il concorde orientamento giurisprudenziale, presupponendo nella sostanza la natura civilistica della condanna alle spese processuali, non si è confrontato con la giurisprudenza costituzionale che ritiene superata l'opinione della natura prettamente civilistica dell'obbligazione di rimborso delle spese processuali, a seguito della legge sull'ordinamento penitenziario (n. 354 del 1975), che ha introdotto il beneficio della rimessione del debito nei confronti dei condannati e degli internati che si trovino in disagiate condizioni economiche ed abbiano tenuto regolare condotta. Tale esenzione premiale ha, secondo la Consulta, fatto mutare natura al debito di rimborso delle spese processuali: «non più obbligazione civile retta dai comuni principi della responsabilità patrimoniale, ma sanzione economica accessoria alla pena, in qualche modo partecipe del regime giuridico e delle finalità dì questa» (così Corte cost., sent. n. 98 del 1998, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 8, comma secondo, cod. pen., nella parte in cui non prevede la non trasmissibilità agli eredi dell'obbligo di rimborsare le spese del processo penale; posizione ribadita da Corte cost., ord. n. 57 del 2001, che su tale presupposto ha ritenuto la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma secondo, cod. pen., nella parte in cui non prevede che il debito di rimborso delle spese processuali cessi, in quanto effetto penale, nel caso di revoca della condanna ex art. 673 cod. proc. pen.). 4. Ad avviso del Collegio, va senz'altro confermato (con le precisazioni che più avanti si faranno) l'orientamento (condiviso anche nella requisitoria del Procuratore Generale e non contestato in dottrina) secondo il quale la domanda del condannato di accertamento dell'inesistenza dell'obbligazione di pagamento di determinate partite delle spese processuali deve essere proposta nella forma della opposizione all'esecuzione in sede civile. Il tradizionale riparto delle attribuzioni spettanti in materia di spese processuali penali fra giudice dell'esecuzione penale e giudice dell'opposizione all'esecuzione in sede civile, già chiaramente fissato dal vigente codice di rito con le ricordate disposizioni di cui all'art. 691, comma 2 (in forza dei richiami ivi contenuti), e all'art. 695, è, invero, pienamente rimasto in piedi con l'entrata in vigore del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, che, disciplinando ex novo l'intera materia delle spese di giustizia e regolando specificamente, per il recupero delle spese, la riscossione mediante ruolo, ha espressamente previsto, all'art. 226, l'applicazione, per le garanzie giurisdizionali, dell'art. 29 d.lgs. 24 febbraio 1999, n. 46, secondo il quale alle entrate non tributarie «non si applica la disposizione del comma 1 dell'articolo 57 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602» (escludente la possibilità di proporre le opposizioni di cui agli artt. 615 e 617 cod. proc. civ.) «e le opposizioni all'esecuzione ed agli atti esecutivi si propongono nelle forme ordinarie». E' fuori dubbio, quindi, che, anche alla stregua della disciplina di cui al d.P.R. n. 115 del 2002, per ogni contestazione che s'intenda sollevare, in sede di riscossione, nei riguardi della quantificazione delle spese operata dall'ufficio competente sulla base della statuizione recata dalla sentenza penale, il rimedio giurisdizionale esperibile è quello dell'opposizione all'esecuzione a sensi dell'art. 615 cod. proc. civ. La (ribadita) scelta del legislatore ha in effetti una logica ben precisa. I momenti della statuizione penale sulle spese e della successiva quantificazione delle stesse sono cronologicamente e ontologicamente diversi. Il primo riguarda l'emissione e la portata (nel senso dei criteri regolatori) della condanna alle spese, il secondo l'operazione contabilmente determinativa del quantum che ne discende. Il giudice dell'esecuzione penale è quindi chiamato a dirimere le questioni inerenti al primo dei due descritti momenti, mentre il giudice civile dell'opposizione all'esecuzione deve occuparsi delle contestazioni relative alla concreta attuazione quantificatoria della statuizione penale. Tali contestazioni possono a loro volta riguardare o aspetti squisitamente contabili o la riconducibilità di talune voci al perimetro di applicabilità della condanna. In relazione a questa seconda ipotesi occorre chiarire che l'intervento del giudice civile dell'opposizione presuppone che non vi siano dubbi sulla definizione del detto perimetro e si verta, quindi, solo sul concreto rispetto di esso in sede di quantificazione. E' evidente infatti che, ove si discuta della reale definizione del perimetro e, quindi, della portata della stessa statuizione penale, la questione non può che appartenere alla cognizione del giudice dell'esecuzione penale. Le puntualizzazioni che precedono consentono di inquadrare correttamente alcuni apparenti contrasti manifestatisi in giurisprudenza nell'applicazione concreta dei suesposti principi (pur formalmente condivisi) sul riparto di attribuzioni in materia fra giudice penale e giudice civile. Allorquando, ad es., sulla questione relativa alla riferibilità delle spese a reati non legati da connessione rilevante ai sensi dell'art. 535 cod. proc. pen. (nel testo anteriore alla novella del 2009), si registrano, da un lato, la posizione di Sez. 1, n. 43696 del 21/10/2010, Almadori, che correttamente accoglie il ricorso proposto con le forme dell'incidente d'esecuzione sotto l'aspetto che il giudice dell'esecuzione non aveva osservato il «principio che l'obbligo solidale al pagamento delle spese processuali deriva solo dalla condanna per concorso nel medesimo reato o per reati tra i quali ricorre una connessione qualificata e non già da una unicità di processo per mera connessione soggettiva o probatoria od altra opportunità processuale (cfr. Cass. sent. n. 12151/2006), nonché [il] principio per il quale siffatto obbligo va comunque rapportato alle sole spese affrontate per il reato od i reati per cui è stata inflitta la pena (cfr. Cass. sent. n. 4129/2006)», e, dall’altro, le decisioni di Sez. 1, n. 44079 dell'11/11/2008, Galiazzo, e Sez. 1, n. 30589 del 07/4/2011, Colleoni, che sembrano affermare invece che la questione de qua appartiene alla cognizione del giudice civile, l'apparente difformità di orientamenti si spiega col fatto che in tali ultime decisioni la pretesa del ricorrente, più che alla definizione della portata oggettiva della statuizione sulle spese, era direttamente rivolta a ottenere lo stralcio parziale o totale di alcune voci di spesa assertivamente estranee al reato per il quale era stata irrogata condanna. 5. Sulla soluzione esposta non può avere influenza la questione della natura della statuizione di condanna alle spese processuali. La dottrina tradizionale ritiene che tale condanna abbia natura giuridica di obbligazione civile ex lege. E tale natura è certamente presupposta da gran parte della giurisprudenza sopra richiamata. Nell'ordinanza di rimessione si richiama al riguardo la diversa tesi, sostenuta dalla Corte costituzionale alla stregua della evoluzione normativa sopra illustrata (v. par. 3), della natura, attribuibile alla statuizione di condanna alle spese, di sanzione economica accessoria alla pena, partecipe in qualche modo dello stesso regime giuridico di questa. A tale qualificazione, in ragione dei pregnanti argomenti svolti dal Giudice delle leggi, può senz'altro aderirsi, ma essa, se ha certamente riflessi sulla possibile sorte in sé della condanna de qua, nessuna interferenza può esplicare sui problemi di determinazione meramente attuativa del suo quantum, insorgenti a valle della accertata definizione del presupposto e del perimetro della sua operatività, e sulla correlata tematica, come sopra affrontata e risolta alla stregua di univoci e coerenti dati di diritto positivo, dell'individuazione del giudice chiamato a risolverli. Una conclusione diversa non può essere sostenuta neppure in base alla previsione - invocata nel ricorso - di cui all'art. 208, comma 1, lett. b), d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall'art. 67, comma 3, legge 18 giugno 2009, n. 69, secondo la quale l'ufficio incaricato delle attività connesse alla riscossione «per il processo penale è quello presso il giudice dell'esecuzione». In primo luogo, infatti, tale norma non è applicabile ratione temporis alla fattispecie di cui in causa, posto che, in forza dell'art. 67, comma 5, legge 69 del 2009, vale solo per i processi definiti dopo l'entrata in vigore di tale legge. Nella sostanza e in ogni caso, poi, è evidente che essa non attiene al riparto giurisdizionale fra giudice penale e giudice civile in tema di spese processuali penali, bensì individua semplicemente l'ufficio amministrativo incaricato delle attività connesse alla riscossione, da svolgersi in "attuazione" della non più controversa statuizione penale. Può, quindi, in conclusione affermarsi il seguente principio di diritto: «La domanda del condannato che, senza mettere in discussione la sussistenza e la portata della statuizione in sé della condanna al pagamento delle spese del procedimento penale, contesti la correttezza della loro quantificazione quale operata dall'uffìcio addetto a tale compito, sotto il profilo sia del calcolo del concreto ammontare delle voci di spesa sia della loro pertinenza ai reati cui si riferisce la condanna, quali desumibili dalla statuizione predetta, va proposta al giudice civile nelle forme dell'opposizione ex art. 615 cod. proc. civ.». Da tutto quanto sopra discende che correttamente la Corte dì appello dì Milano, dopo avere, con un primo provvedimento, chiarito la portata della statuizione di condanna alle spese, delimitandone l'estensione in riferimento ai soli reati per i quali il Pislor aveva riportato condanna, ha ritenuto - a fronte della nuova istanza del condannato con cui si denunciava in sostanza che l'ufficio addetto alla quantificazione non si era attenuto alla delimitazione anzidetta in quanto aveva incluso fra le spese voci non pertinenti ai reati commessi dal Pislor - che il proprio compito di giudice dell'esecuzione si era esaurito con il primo provvedimento e ogni ulteriore questione in ordine alla concreta determinazione del quantum doveva essere proposta innanzi al giudice civile in sede di opposizione all'esecuzione o agli atti esecutivi. Con la seconda istanza, infatti, il Pislor, contrariamente a quanto si assume nel suo ricorso, non sollevava più questioni inerenti alla portata del titolo posto a base del recupero, bensì si doleva della erronea attuazione, da parte dell'ufficio addetto, di quanto recato dal titolo stesso, come precedentemente definito nella sua reale portata: questione chiaramente esulante, alla stregua di quanto sopra illustrato, dalle attribuzioni del giudice dell'esecuzione penale e demandata invece al giudice dell'opposizione all'esecuzione in sede civile. 6. La "declinatoria" della Corte ambrosiana deve dunque, in sostanza, ritenersi, per la parte qui in esame, corretta. Viene in rilievo a questo punto l'altra questione, su cui si denuncia nell'ordinanza di rimessione un contrasto fra le sezioni penali e civili di questa Corte, relativa alle conseguenze di un'erronea adizione del giudice penale su una questione di pertinenza del giudice civile (e viceversa). Al di là del generico utilizzo, in alcune decisioni, dei termini "competente" e "competenza", domina senz'altro, da oltre un decennio, nella giurisprudenza penale la tesi che il riparto di attribuzioni fra giudici civili e penali configuri un vero e proprio riparto di giurisdizione, con la conseguenza che in caso di erronea adizione del giudice penale in luogo del giudice civile (e viceversa), sussiste un difetto assoluto di giurisdizione penale (ovvero civile, nel caso inverso). In tal senso, v., fra le altre, e proprio in relazione a fattispecie inerenti alle spese processuali (ma vedi, per orientamenti analoghi in relazione ad altre fattispecie, Sez. 4, n. 7276 del 16/12/2003, Coraci, Rv. 227832; Sez. 4, n. 22483 del 26/04/2007, Murgia, Rv. 237011; Sez. 1, n. 20793 del 28/04/2009, Frangiamore, Rv. 244172; Sez. 1, n. 21063 del 12/05/2010, Murano, Rv. 247586), Sez. 6, n. 40997 del 07/11/2006, Stara (che ha annullato senza rinvio l'ordinanza del giudice penale che aveva dichiarato inammissibile l'istanza ad esso rivolta e ha dichiarato la giurisdizione del Tribunale civile); Sez. 1, n. 44965 del 17.11.2009, Scapini (che ha ritenuto corretta - rigettando il ricorso proposto avverso di essa - l'ordinanza del giudice penale che aveva dichiarato inammissibile un'istanza che andava proposta al giudice civile, «in quanto diretta a giudice carente di giurisdizione rispetto alla richiesta»); Sez. 1, n. 14624 del 09/02/2011, Serio (che ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice penale nei confronti di quello civile); Sez. 1, n. 7529 del 10/02/2011, Arcuri (che ha rettificato in motivazione l'impugnato provvedimento del giudice penale, che aveva declinato la competenza in favore del «giudice civile competente per territorio», specificando che si versava in ipotesi di difetto di giurisdizione e in tal senso avrebbe dovuto essere emessa "declinatoria" da parte del giudice adito). In quest'ultima decisione si richiama specificamente la «macroanomalia [...] assimilabile al c.d. eccesso di potere giurisdizionale», che - al di là dei «più ristretti profili considerati dall'art. 20 cod. proc. pen., per le ipotesi meno gravi di violazione delle regole sulla giurisdizione da parte del giudice ordinario rispetto a quello speciale - militare e costituzionale - o viceversa» - questa Corte a Sezioni Unite ha individuato e fissato, là dove il provvedimento del giudice risulti "esorbitante" rispetto ai «limiti interni ed oggettivi che, alla stregua dell'ordinamento positivo, discriminano il ramo civile e il ramo penale nella distribuzione della jurisdictio (Sez. U, n. 25 del 24/11/1999, Di Dona, Rv. 214694 [...]». In effetti è proprio nella richiamata sentenza Di Dona delle Sezioni Unite penali - relativa peraltro a un'ordinanza del tribunale civile (ritenuta appunto viziata da difetto assoluto di giurisdizione) di accoglimento del ricorso di difensore avverso decreto di g.i.p. militare in materia di liquidazione dei compensi professionali a norma della legge n. 217 del 1990 - che veniva individuata sistematicamente per la prima volta, all'interno del Tordinamento positivo, una summa divisio nella distribuzione della jurisdictio fra il ramo civile e quello penale, ritenuti quindi due sistemi chiusi e distinti, definiti simmetricamente dall'art. 1 cod. proc. pen. e dall'art. 1 cod. proc. civ. Di contro, nell'ambito della giurisprudenza civile della Corte, espressa al suo massimo livello, si ritiene che «la distribuzione degli affari all'interno di un ufficio giudiziario appartenente alla Magistratura ordinaria non crea questioni di giurisdizione» (così, testualmente, Sez. U civ., n. 10959 del 22/05/2005), e ciò perché è di giurisdizione «solo la questione che attiene all'individuazione delle sfere di attribuzione rispettive del giudice ordinario e dei giudici speciali e alla delimitazione di tali attribuzioni rispetto alla pubblica amministrazione e ai giudici stranieri, ma non quella relativa alla ripartizione degli affari tra giudici, civili o penali, appartenenti alla stessa giurisdizione ordinaria» (così riassume la posizione delle sezioni civili, con ampio richiamo di precedenti, Sez. U civ., n. 19161 del 03/09/2009). Ad avviso del Collegio (e in conformità a quanto rilevato dal Procuratore Generale), deve condividersi l'orientamento delle Sezioni Unite civili. Depongono invero decisamente in favore di questo, a fronte dell'opposta tesi patrocinata dalla sentenza Di Dona (pur frutto di un pregevole sforzo ermeneutico), il saldo ancoraggio all'impianto generale della materia quale delineato nella nostra Carta costituzionale (v. in particolare gli artt. 102 e 103, specificamente richiamati dalla cit. Sez. U, civ., ord. n. 10959), e il chiaro conforto portato da alcune essenziali norme ordinarie (artt. 1 r.d. n. 12 del 1941, 37 e 362 cod. proc. pen., richiamati sempre dalla cit. ord. 10959, cui può aggiungersi anche l'art. 28 cod. proc. pen.). 7. Chiarito ciò in via generale, e sottolineato che l'errore nella individuazione del giudice penale si può presentare in termini meramente "indicativi", non accompagnati cioè dal contestuale mancato rispetto di determinate forme, ovvero assumere rilievo solo come riflesso della inosservanza della procedura prevista per la trattazione di un determinato affare, sarà evidentemente compito del giudice adito verificare se, in relazione al petitum sostanziale preteso, l'istante abbia seguito il corretto iter stabilito dall'ordinamento. Una volta accertato che il petitum non è stato incanalato nella sede e/o nella forma prescritta, ne conseguirà l'esito negativo in limine dell'affare, che non verrà comunque mai espresso in termini di difetto di giurisdizione. Sarà compito del giudice civile, a cui l'istanza venga poi risottoposta - per trasmissione del giudice penale, se incardinato presso il medesimo ufficio giudiziario, o a seguito di iniziativa di parte - provvedere all'occorrenza a rimettere in termini quest'ultima (art 153, comma secondo, cod. proc. civ.) per consentirle di perfezionare gli atti necessari a stabilire il contraddittorio, sempre che l'errore della parte sia ritenuto scusabile (v., per concrete applicazioni, Sez. U civ., n. 24413 del 21/11/2011; Sez. 2 civ., n. 14627 del 17/06/2010). Con riferimento alla ipotesi oggetto di causa, non c'è dubbio che il giudice penale, che sia investito nelle forme dell'incidente di esecuzione della domanda del condannato di accertamento dell'inesistenza dell'obbligazione di pagamento di determinate partite delle spese processuali, non può che dichiarare - come correttamente avvenuto nella specie - il non luogo a provvedere sull'istanza, siccome recante una pretesa non proponibile con lo strumento utilizzato, ma da far valere, come si è sopra visto, innanzi al giudice civile nelle forme dell'opposizione ex art. 615 cod. proc. civ.. Tale declaratoria non può ovviamente costituire in sé preclusione alla risottoposizione dell'istanza a tale ultimo giudice nel rispetto dei presupposti procedurali necessari. Da quanto sopra può enuclearsi il seguente principio di diritto: «Il giudice penale erroneamente investito nelle forme dell'incidente di esecuzione della domanda del condannato di accertamento dell'inesistenza dell'obbligazione di pagamento di determinate partite delle spese processuali deve dichiarare (non il proprio difetto di giurisdizione ma solo il) non luogo a provvedere sull'istanza, senza che tale declaratoria possa costituire in sé preclusione alla risottoposizione della stessa, nel rispetto dei presupposti procedurali necessari, al giudice civile competente in materia di opposizioni all'esecuzione forzata». Alla stregua di quanto esposto, deve ritenersi che nella specie la Corte di appello di Milano, per la parte qui in discussione (relativa alla pretesa che intervenisse direttamente sulla prospettata erronea attuazione, da parte dell'ufficio addetto, di quanto recato dalla statuizione sulle spese, come precedentemente definita nella sua reale portata), correttamente ha deciso, con l'appropriata formula del "non luogo a provvedere", di non procedere all'esame del merito dell'istanza proposta, spettante al giudice civile in sede di opposizione all'esecuzione. 8. Un'altra questione che viene sollevata nel ricorso è quella del vincolo di solidarietà nella condanna alle spese processuali penali. Nella specie, in conformità alla legge del tempo, la statuizione di condanna recava tale vincolo. Lo stesso, a seguito della ordinanza della Corte di appello di Milano in data 8 febbraio 2010, andava ovviamente riferito alle sole spese attinenti ai reati per i quali il Pislor aveva riportato condanna. Il ricorrente assume che, a seguito dell'abrogazione dell'art. 535, comma 2, cod. proc. pen., recata dalla legge 18 giugno 2009, n, 69, il vincolo di solidarietà avrebbe dovuto essere escluso. Né potrebbero al riguardo valere preclusioni derivanti dalla posteriorità della disposizione abrogatrice rispetto all'epoca della statuizione di condanna, in quanto la regola, prevista dall'art. 58 della legge n. 69, di applicabilità temporale di tale legge ai soli giudizi instaurati dopo la sua entrata in vigore, varrebbe solo per le disposizioni modificatrici del codice di procedura civile. La Cotte ambrosiana, ritenendo che la disposizione in esame, relativa alle spese, ha carattere processuale, ha escluso che la stessa possa trovare applicazione nel procedimento de quo, attinente a debito maturato in forza di sentenza emanata anteriormente. La decisione appare in linea con l'orientamento uniforme della giurisprudenza di legittimità, a parere della quale è «legittima la sentenza che condanna l’imputato al pagamento delle spese processuali in solido con i coimputati, emessa prima dell'entrata in vigore della legge 18 giugno 2009, n. 69, la quale ha modificato la regola di imputazione delle suddette spese, sostituendo al vincolo di solidarietà il criterio dì accollo prò quota delle medesime, atteso che le disposizioni in materia di spese processuali hanno natura processuale e la loro applicazione è conseguentemente regolata dal principio del tempus regit actum» (Sez. 6, n. 39682 del 25/09/2009, Gargiulo, Rv. 244704; nel medesimo senso, Sez., 1, n. 27253 del 24/06/2010, Toniolatti, Rv. 247734; Sez. 1, n. 43696 del 21/10/2010, Almadori; Sez. 5, n. 7160 del 13/01/2011, Zagari; Sez. 1, n. 13328 del 21/01/2011, Guidotti). 9. Nell'ordinanza di rimessione si pone seriamente in dubbio che la disposizione della legge n. 69 del 2009 che, attraverso l'abrogazione del comma 2 dell'art. 535 cod. proc. pen. (che lo prevedeva e regolava), ha eliminato il vincolo di solidarietà dell'obbligazione al pagamento delle spese del procedimento penale scaturente dalla condanna, abbia natura processuale. In effetti, se si pone mente a quanto sopra osservato (par. 4) in ordine alla natura di sanzione economica accessoria alla pena, che deve ormai attribuirsi alla statuizione di condanna alle spese del procedimento penale, non può non ritenersi che un Intervento che delimiti l'entità di tale sanzione abbia natura di norma non processuale ma sostanziale. Da ciò tuttavia, come riconosce la stessa Sezione rimettente, non può derivare l'applicabilità retroattiva della nuova regola del prò quota alle fattispecie (come quella di cui in causa) per le quali sia stata anteriormente pronunciata sentenza irrevocabile, stante la preclusione di cui all'ultimo inciso del comma quarto dell'art. 2 cod. pen.: preclusione che, nell'ambito in esame (di mera sopravvenienza di norma più favorevole), certamente non presenta profili di incompatibilità con principi costituzionali o sovranazionali. Sul piano costituzionale deve, infatti, ricordarsi, con Corte cost., sent. ISI. 74 del 1980 (che richiama al riguardo le sue precedenti pronunce n. 164 del 1974 e n. 6 del 1978), che «l'applicazione delle disposizioni penali più favorevoli al reo può subire limitazioni o deroghe, sancite non senza una qualche razionale giustificazione da parte del legislatore ordinario. Ora, non sembra contestabile che una pertinente ragione giustificativa consista appunto nell'esigenza di salvaguardare la certezza dei rapporti ormai esauriti, perseguita statuendo l'intangibilità delle sentenze divenute irrevocabili». Sottolineando che il principio di retroattività della norma penale più mite, espresso, nel nostro ordinamento, dall'art. 2, comma secondo e seguenti, cod. pen., e affermato da varie fonti internazionali, rinviene il proprio fondamento costituzionale non tanto nell'art. 25, comma secondo, Cost., quanto nel principio di eguaglianza (che impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l'entrata in vigore della norma che ha disposto VaboHtio criminis o la modifica mitigatrice), anche Corte cost., sent. n. 394 del 2006, ribadisce che esso «deve ritenersi suscettibile di deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli». Sul piano delle regole internazionali, poi, deve ricordarsi che il principio della retroattività della /ex mitior è riconosciuto in vari strumenti internazionali: art. 15 del Patto internazionale di New York relativo ai diritti civili e politici; art. 49 della Carta di Nizza; art. 24 dello Statuto della Corte Penale Internazionale; art 7 CEDU, come interpretato di recente dalla Corte EDU, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia. Nessuna di tali fonti gli attribuisce però una portata tale da prevalere sull'esigenza di salvaguardia del giudicato. Sull'art. 15 del Patto internazionale di New York vi è anche un'espressa riserva in tal senso formulata dall'Italia all'atto del deposito dello strumento di ratifica (conforme del resto alla norma di interpretazione autentica di cui all'art. 4 della legge 25 ottobre 1977, n. 881). Per la Carta di Nizza nessun dubbio può sorgere al riguardo, stante il suo riconosciuto carattere espressivo di principi comuni agli ordinamenti europei (cfr. Corte giustizia, 03/05/2005, Berlusconi, C-387/02, C-391/02 e C-403/02). Nello Statuto della Corte Penale Internazionale la salvaguardia del giudicato è testuale («Si le droit applicable à une affaire est modifié avant le jugement définitif, c'est le droit le plus favorable à la personne faisant l'objet d'une enquête, de poursuites ou d'une condamnation qui s'applique»). Quanto all'art. 7 CEDU, la stessa citata pronuncia della Corte EDU, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, che per la prima volta ne ha dato una lettura comprensiva del principio in questione, ha formalmente definito la regola che ne consegue nel senso che «si la loi pénale en vigueur au moment de la commission de l'infraction et les lois pénales postérieures adoptées avant le prononcé d'un jugement définitif sont différentes, le juge doit appliquer celle dont les dispositions sont les plus favorables au prévenu», così salvaguardando espressamente l'intangibilità del giudicato (come ricordato anche da Corte cost., sent. n. 236 del 2011, che si è di recente cimentata con il tema dell'incidenza della sentenza Scoppola sulla norma transitoria di cui all'art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251). 10. Palesemente destituita di fondamento è la pretesa del ricorrente di far discendere l'applicazione retroattiva della regola dell'accollo delle spese prò quota dalla norma dell'art. 58 della legge n, 69 del 2009, secondo la quale «le disposizioni della presente legge che modificano il codice di procedura civile e le disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile si applicano ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore». Tale disposizione, infatti, com'è evidente, regola l'applicazione temporale delle modifiche apportate al codice di rito civile, ma nulla dice riguardo alle modifiche del codice di procedura penale, rimettendo, quindi, la soluzione delle varie questioni di diritto intertemporale che possano al riguardo insorgere, alle regole generali applicabili in relazione alla tipologia della questione. Né, infine, a conclusioni diverse può condurre la previsione, richiamata problematicamente nell'ordinanza di rimessione, di cui all'art. 205, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall'art. 67, comma 3, legge n. 69 del 2009, secondo cui «Le spese del processo penale anticipate dall’erario sono recuperate nei confronti di ciascun condannato, senza vincolo di solidarietà, nella misura fissa stabilita [...]». Tale disposizione, infatti, si pone chiaramente su di un piano di esecuzione del provvedimento «da cui sorge l'obbligo» (giusta la significativa espressione utilizzata nell'art. 212, comma 1, d.P.R. n. 115 del 2002) ed è, di conseguenza, intrinsecamente inidonea a interferire, in modo improprio e indiretto, sulla stessa portata sostanziale di esso. L'inciso sull'esclusione del vincolo di solidarietà deve, quindi, essere correttamente inteso come un mero corollario del nuovo contesto normativo contraddistinto dalla contestuale abrogazione del carattere solidale della condanna alle spese ed è riferibile, come tale, ai soli titoli già ex se assoggettabili ratione temporis al criterio dell'accollo prò quota. Alla stregua di quanto sopra, seppur per le diverse ragioni sopra illustrate, è da considerare corretta la decisione della Corte milanese di ritenere inapplicabile al caso di specie l'esclusione del vincolo di solidarietà, conseguente all'abrogazione dell'art. 535, comma 2, cod. proc. pen., recata dalla legge 18 giugno 2009, n. 69. Sul punto pare opportuno precisare che la Corte di appello ha in sostanza respinto nel merito la pretesa avanzata dal Pislor, pur se, nel dispositivo, non ha espresso tale reiezione in forma corretta e autonoma dalla generale declaratoria di non luogo a provvedere. L'esame del merito era, in effetti, in parte qua, dovuto, atteso che la questione relativa alla sussistenza o meno del vincolo di solidarietà, così come proposta in correlazione all'abrogazione dell’art. 535, comma 2, cod. proc. pen., recata dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, investiva propriamente la portata generale della condanna alle spese e rientrava quindi nelle attribuzioni del giudice dell'esecuzione penale. Discendono da quanto sopra i seguenti principi di diritto: - «La questione relativa alla persistenza, a seguito dell'abrogazione dell'art. 535, comma 2, cod. proc. pen., recata dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, del vincolo di solidarietà della condanna alle spese del procedimento penale, in tal senso già emessa, rientra nelle attribuzioni del giudice dell'esecuzione penale»; - «L'esclusione del vincolo di solidarietà conseguente all'abrogazione dell'art. 535, comma 2, cod. proc. pen., recata dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, non ha effetto sulle statuizioni di condanna alle spese emesse anteriormente in tal senso a passate in giudicato, e ciò (non per la natura processuale della suddetta disposizione abrogatrice, cui va invece riconosciuta natura di norma sostanziale, sibbene) in forza della preclusione di cui all'ultimo inciso del comma quarto dell'art. 2 cod.pen. », Il proposto ricorso deve, pertanto, essere in toto rigettato. P. Q. M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 29 settembre 2011.